E ora si ricomincia con più musica e più spettatori

0
1

Anche i bookmakers hanno trattenuto il fiato fino all’ultimo per fissare le quote sul vincitore del 74° Festival della Canzone Italiana di San­remo. Una ridda di voci, i soliti bene informati, il blablabla tra il pubblico in sala e le migliaia di persone sotto la pioggia in Corso Mat­teotti. Tutti pensavano co­munque che sarebbe successo qualcosa di inaspettato, nonostante le premesse (e le polemiche soprattutto sul televoto) dopo la terza serata, quella dei duetti, che sembravano aver incoronato un rapper (ma anche un po’ neomelodico…) partenopeo. Chi, nella notte tra sabato 11 e domenica 12, aveva sotto gli occhi gli elenchi delle quote dei diversi siti di scommesse, giusto in quei pochi secondi di refresh delle pagine, vedeva in tempo reale alzarsi ed abbassarsi le quote dei due veri contendenti finali, es­sendo ormai praticamente Annalisa fuori gioco.

Insomma roba da decimi di punto. All’annuncio del ter­zo posto di Annalisa, ecco il pareggio delle cifre fra Angelina Mango e Geolier, giusto il tempo per Ama­deus, con la busta aperta in mano, di prender fiato e proclamare urbi et orbi la canzone vincente. La noia, il brano, la cumbia, questo misto di salsa, merengue, mambo e rumba, di An­gelina Mango, stacca di un pelo esilissimo Emanuele Palumbo, in arte Geolier, e la sua I p’me, tu p’te. Poi stop. Fine. Basta. I maratoneti del telecomando giunti al traguardo, stremati come se avessero corso veramente, sono stati, secondo i dati Auditel, poco più di 14 milioni e 300mila, qualcosa come quasi 7 telespettatori su 10. Tanti anche se non i 18 milioni e 300mila del Festival di Pippo Baudo del 1987. Ma allora le reti nazionali erano solo sei e lo streaming della tv, che non si conteggia, era ancora di là da venire.

Tutto questo perché il Fe­stival è un fatto sociale a detta di molti. Personaggi della levatura di Umberto Eco e Pier Paolo Pasolini, ma anche maître à penser un tanto al chilo, ne hanno narrato le spigolature spesso indicando chiavi di lettura più o meno condivisibili. O lo ami o lo odi, non ci sono mezze misure. Il Festival è solo bianco o nero. È solo divano e telecomando oppure tv spenta e un buon libro. Lo leggi sui social dove ci sono vere e proprie professioni di fede di chi lo guarda (e commenta canzone per canzone, abito per abito, stecca per stecca) e chi orgogliosamente rivendica il diritto di giocare a Monopoli o a scala 40. Del resto anche i palinsesti delle concorrenti della Rai, spesso, si guardano bene dal proporre alternative che siano realisticamente contrastanti. Oppure succede che Canale 5 affidi le sue sorti alla replica di Titanic e, ironia della sorte, naufraghi con un misero 4 % di share, né più né meno come Rai­due, appena sopra di un punto percentuale la 7, altre reti non pervenute. Tutto ciò a fronte di una contemporanea e costante occupazione della fascia tra il 60 e il 70% della rete ammiraglia della Rai.

Insomma: i riti, le abitudini, il programma della rassegna canora sono collaudatissimi. Anche se cambiano le direzioni artistiche (ciao Ama, ciao Fiorello…), lo spirito resta quello di sempre, con i riflettori puntati, con l’assalto dei fans, con l’eccentricità dei protagonisti che mettono i piedi sul palco dell’Ariston, affrontando la ripida ed insidiosa scalinata. Poi ci sono i fan in Corso Matteotti che diventano un pubblico dai comportamenti quasi estremi. Una mamma che praticamente lancia il piccolo figlio perché Ciuri lo baci, la corsa ad ostacoli di Russel Crowe attraverso i selfie della folla pressante. La ola ad ogni passaggio di celebrità. Alla fine tutti strafelici, seppur fradici di pioggia fino alle mutande, co­stantemente in attesa, ore ed ore, per strappare un mi­crosecondo con un famoso, un ciao ciao davanti alla telecamera.
Ormai tutto passato alla storia per una rassegna che, rispetto a passate edizioni, ha dato meno corda al gossip e alle polemiche.

Dagospia ha definito il Fe­stival addirittura “soporifero”. Poche cose da registrare: il ballo del qua qua di John Travolta, per esempio. Non si saprà mai com’è andata. Al di là della pubblicità occulta di cui sarebbe stato protagonista come te­sti­monial di una marca di scarpe da antinfortunistica, all’improvvisata del ballo in strada non ci si crede molto. Del resto resta evidente che qualcosa l’avrà provato con Fiorello ed Amadeus perché Travolta i passi e le giravolte con i due mattatori ha dimostrato di saperli eseguire alla perfezione. Su Geolier si è detto di tutto: dai fischi, al controllo del televoto da parte di qualcuno organizzato chissà in quale modo più o meno lecito, al razzismo strisciante, al secondo posto finale. Dal broncio di Annalisa terza, seppur data vincente fino all’inizio del Festival, al presunto movimento frenetico nei bagni dei camerini dell’Ariston per “tirarsi” un po’ su…

Tante voci, come quelle dei telefoni senza fili che usavamo da bambini, ossia capire “Toma” per “Roma”. È il bello della kermesse che per una settimana all’anno tie­ne banco. Pratica archiviata, chiusa nello scatolone dei ricordi con sopra l’etichetta 2024, ormai sostituita da una cartellina, quella del 2025, che avrebbe già alcuni nomi per la conduzione: Alessia Marcuzzi con Ste­fano di Martino, la Marcuzzi addirittura da sola, poi Alessandro Cattelan, poi ancora l’accoppiata Carlo Conti-Paolo Bonolis (quest’ ul­timo in scadenza a giugno con Mediaset), Antonella Clerici un’altra volta. Ma si vocifera anche di Laura Pausini e, in più, di un uo­mo con carisma da tv come Gerry Scotti. Ma all’ultimo appuntamento potrebbe es­serci un ripensamento per Amadeus: «Il momento critico sarà ad agosto – dice Fiorello – se passiamo agosto sarà sicuro che non torna. Però…». Chissà se parla per Ama. Vedremo.

Articolo a cura di Luis Cabasés