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«Solo dieci giorni per la mia parte? Ne valeva la pena»

Visto ad Alba in “Testimone d’accusa”, Paolo Triestino ha avuto il ruolo da protagonista all’ultimo momento

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Versatile, veloce, di­sponibile, stakanovista, Paolo Triesti­no è uno di quegli attori su cui si può contare. Lo sa bene Geppy Gleijeses, regista di “Testimone d’accusa”, celebre commedia di Agatha Christie, in tournée con tappa ad Alba, che lo ha chiamato a sostituire Giorgio Ferrara nel ruolo protagonista. Così, dall’oggi al domani, a pochi giorni dal debutto. Una settimana di tempo per mandare a memoria un testo che è un flusso di parole, anche insidioso, fatto di incalzanti colpi di scena e di espressioni tecniche, attinte alle procedure e al gergo forense. Insomma un testo dove non ti puoi proprio sbagliare, né cavartela improvvisando lì per lì, pena il crollo di tutto il marchingegno. E pochi, po­chis­s­imi giorni di prove per accordarsi con un cast già formato, che attendeva solo sir Wilfrid Robarts per andare in scena.

Triestino, com’è andata?
«Ho passato dieci giorni a studiare come un matto. Entro in scena dopo i primi dieci minuti e poi non esco più. All’inizio avevo la memoria puntata con gli spilli. Sir Wilfrid Robarts è un protagonistone».

Chi è esattamente?
«Esattamente non si sa. Un principe del foro, sicuramente. Ma nella scrittura di Agatha Christie tutti i personaggi han­no poca psicologia e di lui non sappiamo nulla oltre il suo ruolo. Più che un personaggio è una funzione per mandare avanti il meccanismo del giallo, tutto è in funzione della storia. La psicologia te la devi inventare tu».

Questa commedia ha degli illustri precedenti, anche cinematografici. Si è ispirato a qualche vecchia gloria o ha fatto tutto da solo?
«Non ho nemmeno voluto rivedere il film di Billy Wilder con Charles Laughton (e con Tyrone Power e Marlene Dietrich, ndr). Lui era un attore talmente particolare che il solo confronto mi deprimerebbe. Un pezzo di storia del cinema».

E se mai si deprimesse cosa succederebbe?
«Reciterei peggio».

Invece pare che il pubblico gradisca.
«Molto. Il pubblico è conquistato dal meccanismo, con quattro colpi di scena in dieci minuti non ti puoi distrarre, questo è un giallo all’ennesima potenza».

So che il pubblico viene chiamato in causa.
«Proprio chiamato in causa. Ogni sera vengono scelti tra il pubblico sei spettatori che saliranno sul palcoscenico in veste di giurati. Una sera abbiamo avuto un magistrato vero».

Nessuna sorpresa?
«Per ora no. Se ne vanno con l’espressione soddisfatta, di chi ha vissuto un’esperienza uni­ca».

La stessa espressione del pubblico di “Ben Hur”, storia dura di sfruttamento e immigrazione dal testo di Gianni Clementi che qualche anno fa dovevate presentare al Teatro Romano di Bene Vagienna e poi siete finiti in una palestra. Cos’era successo?
«Che esperienza quella! Le previsioni davano pioggia e noi non potevamo certo allestire la scena all’aperto. Quindi all’ultimo minuto ci hanno offerto la palestra del comune e abbiamo fatto lo spettacolo senza scenografia e senza luci, con i cambi a vista, abbozzando una scena con un tavolo e un attaccapanni».

Eppure il pubblico ne era uscito entusiasta.
«Ci ringraziarono perché lo spettacolo si fece lo stesso. Quando accadono queste cose il pubblico si entusiasma perché ha la sensazione di partecipare a un evento unico».

“Ben Hur” la vedeva in scena con Nicola Pistoia ed Elisabetta De Vito, un sodalizio, soprattutto con Nicola, durato molti anni. Perché la frattura?
«Non parliamo di frattura. È nella natura dei rapporti. Come Pistoia Triestino abbiamo fatto tante cose belle, spettacoli che sono rimasti nel cuore, ma a un certo punto si ha voglia di fare altro, di essere più liberi e autonomi nelle scelte. Artistica­mente ognuno ha sviluppato una propria poetica e direzione ed è giusto che la persegua».

Tra gli spettacoli cult della ditta vogliamo ricordare “Muratori”, un testo di Edoardo Erba in cui costruivate, in scena, un muro vero, a tutti gli effetti. Ricordo bene la replica fossanese.
«La ricordo anch’io come una grande festa di pubblico, si era creata un’atmosfera speciale».

Triste storia di teatri chiusi, sempre più attuale.
«Purtroppo. Sì, “Muratori” era anche la storia di un teatro che chiude per aprire un supermercato».

Io ricordo una battuta bellissima di uno dei due, che coltivava il sogno di diventare im­prenditore di fogna perché “i tombini uniscono mentre i mu­ri dividono”.
«Bella e attuale anche quella, purtroppo».

Come ditta avete spesso commissionato i testi ad autori amici, la scrittura sull’attore, tanto anelata, che nasce e si modifica in corso d’opera. Co­me se la passa la drammaturgia italiana contemporanea di questi tempi?
«Non se la passa bene, gli autori di teatro che vivono del loro lavoro si contano sulle dita di una mano. Io vedo grandi ta­lenti mortificati dalla mancanza di committenza, dalla difficoltà di vedere i propri testi rappresentati per un’intera tournée. Non c’è mercato e i teatri stabili, o nazionali, prediligono autori noti o grandi classici. Spesso gli autori sono chiamati a fare adattamenti da testi stranieri di grande richiamo o da film».

Allora voi siete stati una gloriosa eccezione.
«Erano altri tempi, le stagioni cominciavano prima e finivano dopo. Con gli spettacoli che ha citato lei, ma anche con altri, avevamo raggiunto le quattrocento repliche, un vero miracolo. Oggi non è pensabile».

E perché?
«Perché le leggi sul teatro non funzionano. Obbligano i Teatri Nazionali a una iperproduzione con il risultato che gli spettacoli in cartellone restano al massimo quindici giorni e poi via, si cambia. Non interessa più farli girare perché ci sono numeri da rispettare. Un meccanismo perverso».

La società dell’usa e getta, insomma. Lei invece mi sembra molto legato alla dimensione duratura della vita. Una curiosità: da quanti anni sta con la stessa compagna?
«Alessandra è mia moglie da trentotto anni. Abbiamo due figli e tre nipoti. È la mia metà, inoltre ama il teatro e lo frequenta da prima di me e si occupa della distribuzione dei nostri spettacoli».

E di tutte le gatte annesse e connesse, immagino. È vero che quando lei esce di casa a piedi per raggiungere il teatro dopo una quindicina di chilometri, lei la scorta in motorino?
«Mi raggiunge dopo, perché è un po’ pigra».

Non si è mai lamentata della sua ossessione per le Tshirt?
«No, anzi, quando ne vedo una che mi piace mi esorta ad acquistarla. Ma sono io che ho smesso, ho l’armadio pieno e mi sento un tossico».

Nessuna dipendenza?
«Il cioccolato nero al 100%».

Cosa le piace di Alba?
«Una cittadina deliziosa, Alba. Mi piacciono molto le tagliatelle al tartufo».

Articolo a cura di Alessandra Bernocco

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