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«Siamo più pronti, ma pure più stanchi»

L’emergenza sanitaria vista da Remo Galaverna, neo presidente degli infermieri della Granda

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Prima eroi, poi untori, a volte addirittura “complici” di un com­plotto. Dura la vita degli infermieri in questo periodo di pandemia, che dallo scorso marzo stanno affrontando in prima linea, senza mai prendere fiato. «La cosa tremenda è che non si vede una fine», spiega Remo Galaverna, infermiere di Terapia Intensiva al Santa Croce di Cuneo e da dicembre presidente dell’Ordi­ne delle Professioni Infermieri­sti­che di Cuneo. Una bella storia la sua: 44 anni, originario di Caraglio, ma da anni residente a Savigliano, è un ex elettricista che con il tempo ha capito la sua “vocazione”. Anche se non gli piace parlare di “missione”.

Cosa significa per lei essere Presidente degli infermieri della Granda?
«Una soddisfazione enorme, un onore e un orgoglio. Vivendo questo ruolo quotidianamente, sto capendo sempre di più quanto sia importante. Sento una grande responsabilità verso i colleghi, ma anche nei confronti dei cittadini, da cui riceviamo richieste e segnalazioni ogni giorno. Senza dubbio è un grosso impegno, ma sono felice: ci tenevo e sto ricevendo apprezzamenti da parte dei colleghi che mi fanno molto piacere».

Quali sono gli obiettivi principali che intende perseguire?
«Mi piacerebbe che l’Ordine degli Infermieri fosse sempre di più un luogo aperto, dove potersi confrontare e crescere insieme. Vogliamo essere vicini ai nostri colleghi per dare loro un supporto, soprattutto in questo periodo così particolare».

Ecco, parliamo di questo periodo. Ci racconta come sono stati gli ultimi mesi per voi?
«Molto duri, ma è difficile generalizzare. Ognuno ha il proprio modo di affrontare le situazioni, e poi incide anche il reparto in cui si lavora. Io posso parlare della mia esperienza in Terapia Intensiva, dove abbiamo i casi più gravi e dove da marzo viviamo una situazione di cui non vediamo la fine. Appena le persone si riprendono un po’, vengono mandate in altri reparti per far posto a nuovi pazienti: è un ciclo che si ripete senza sosta. Ve­diamo solo e sempre cose brut­te, senza mai percepire i risultati. È davvero pesante, dal punto di vista emotivo, e non solo».

Cosa intende?
«È anche molto faticoso fisicamente. Quando iniziamo il turno, dobbiamo indossare la mascherina, la tuta e diversi paia di guanti: per 6 ore non possiamo mangiare, bere o andare in bagno. Non è facile. Adesso siamo riusciti un po’ ad abituarci, ma all’inizio è stata durissima: qualcuno doveva fare training autogeno prima di iniziare la vestizione. Per tutte queste ragioni, è una situazione che continua a essere molto difficile. Io amo quello che faccio, ma ultimamente, quando vado a lavorare, sento un peso».

Quali sono le differenze rispetto alla prima fase dell’emergenza?
«Siamo più pronti nell’affrontarla, ma non c’è lo stesso entusiasmo dell’inizio. Tutto il personale è più stanco e provato da questi duri mesi: la motivazione di fare al meglio il proprio lavoro c’è sempre, quella non manca mai. Però dall’esterno non sentiamo più quell’apprezzamento che percepivamo prima. Du­ran­te la prima ondata eravamo celebrati e ringraziati di continuo: ci chiamavano addirittura eroi».

Una definizione che però non vi è mai piaciuta.
«No, perché non siamo eroi e non lo siamo mai stati. Gli eroi hanno i super poteri, noi no. Siamo professionisti che fanno il loro lavoro al meglio. Ci ha fatto piacere che in questa si­tuazione di emergenza sia stato dato risalto alla cura e all’impegno che mettiamo nell’assistenza dei nostri pa­zienti, ma è una cosa che abbiamo sempre fatto e che continueremo a fare an­che in futuro, quando non ci saranno più i riflettori su di noi».

Ora siamo all’opposto: in alcuni casi siete addirittura bersagli di violenze verbali e attacchi.

«Le notizie di questi episodi le abbiamo sentite tutti. In alcuni casi anche noi ci siamo trovati a curare persone che, nonostante si trovassero in ospedale e stessero male, continuavano a mettere in dubbio la gravità del virus. Purtroppo c’è gente che approfitta di questa situazione per creare confusione e mettere in giro notizie false, a cui qualcuno crede».

In definitiva, cosa significa per lei essere infermiere?

«Significa aver scelto di stare vicino alle persone, mettendole al centro e accompagnandole durante il percorso di cura. Vuol dire assistere gli altri. Io facevo l’elettricista, ma ad un certo punto della mia vita ho capito che quello che volevo fare era altro, perché ero portato per assistere le persone. Però ripeto, non parliamo di missione: il nostro è un lavoro. Noi siamo dei professionisti, come tanti altri».

BaNNER
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