Alter ego di Petrini, artista senza limiti: ricordando Azio Citi

In Fondazione Mirafiore una serata lo ha celebrato tra musica e grande affetto. Il racconto di una vita piena di idee, con performance improvvisate e momenti esilaranti

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È andata proprio co­sì. Driin! Driiin! «Carlo, Sono Fran­ce­sco… ».
«Francesco? Chi?».
«Francesco il Papa…».
«Azio, gadan! Piant-la lì».
Ma Francesco era veramente Papa Bergoglio e Carlo Pe­trini era proprio lui. Entrambi in carne ed ossa, lontani soltanto una telefonata l’uno dall’altro. Ma il terzo protagonista del dialogo, Azio, presente seppur assente nell’incipit della telefonata, non poteva mancare.
Ecco, questo è un esempio inequivocabile del rapporto, amicale, artistico, militante, reciprocamente appagante tra Carlin e Azio Citi, il suo alter ego, il suo complice, il suo sodale, durato una vita intera, fino alla scomparsa di Azio un anno fa.
La loro era una vera simbiosi… Petrini era assolutamente convinto che la telefonata fosse uno dei millanta scherzi del suo complice. E sapendo che ogni tanto gliene combinava una, cascò nell’equivoco provocando una lunga ri­sata di papa Bergoglio che salvò Carlin dall’imbarazzo dell’accaduto.
«Ci conoscevamo fin dall’asilo» racconta Carlin a Fon­tanafredda dove sabato scorso c’è stata una festa, un tributo in onore di Azio, con l’aula della Fondazione Mi­rafiore gremita all’inverosimile. A Fontanafredda tirava le fila del racconto Padre Filip, Filippo Bessone, che per dieci anni con Padre York, Azio appunto, e il piccolo chierichetto Luca Oc­celli, hanno dato vita a “L’Ora Canonica”, un vero e proprio caleidoscopio divertente del­le caratteristiche della società della Granda.
La frequentazione fin da piccoli la dice lunga sulla storia condivisa dei due. Lo conferma anche lo stesso Azio. In “Slow Food Story”, il docufilm di Stefano Sardo realizzato nel 2013, alla domanda su chi sia Carlin risponde schietto: «È il mio miglior amico» tout court.
«Diciamo che abbiamo fatto i primi passi insieme. Siamo del ’49 – continua Azio nel documentario – e ci conosciamo dal ’53, o dal ’54».
Asilo, elementari, sempre assieme, anche nelle feste della parrocchia: «Nel 1958 percorrevamo le vie di Bra con un giglio in mano, ancora in purezza, durante la processione dell’Immacolata Conce­zione. Era­vamo figli della nostra epoca. Sua mamma era monarchica, ma suo papà era socialista. A casa mio padre era comunista e i figli, in qualche modo, somigliavano ai padri.
Poi alla fine ci si incontrava e le amicizie nascevano in quel modo». Destino? «Già allora anche una forma di simpatia tra di noi».
Crescono, studiano, soprattutto si divertono. Il loro è un sodalizio a 360 gradi: amicizia, svago e politica. E tante idee intorno alle quali si riunisce tutta una generazione di giovani braidesi che realizzano i loro sogni trasformandoli in realtà. Uno di questi, Giovanni Ravinale, più o meno coetaneo, scomparso nel 1999, diventa la terza gamba di un trio di personaggi che animeranno per un bel pezzo le scene e la vita della cittadina. I tre, fin dalla fine degli anni Sessanta, complice la frequentazione in una associazione cattolica, la Vin­cenzo de’ Paoli, aperta anche ai laici per le attività di assistenza ai più sfortunati, di­ventano una colonna portante della vita braidese. Li ritroveremo al Premio Tenco do­ve anche in quel caso per anni saranno protagonisti in particolare delle nottate gastroartistiche (e anche molto vinose) al termine di ogni serata, al roof del teatro Ariston.
Nella prima metà degli anni Settanta fondano, più o meno nell’ordine: la sezione dello Pdup, il Partito di Unità Pro­letaria; lo spaccio di generi alimentari a prezzi calmierati; “In Campo Rosso”, mensile della sinistra cittadina.
Nel 1975 iniziano le trasmissioni di Radio Bra Onde Rosse, in un etere pressoché libero di frequenze così da permettere la diffusione dei programmi dell’emittente sen­za tanti problemi. Ma se non ci sono guai tecnici, ci pensano la magistratura e i carabinieri a sequestrare e dissequestrare la radio seguitissima in quei tempi. Si sapeva, il monopolio della Rai era sacro e la politica di quel tempo, non solo democristiana, ma anche del Pci, non vedeva di buon occhio spazi libertari di tale fattura. Nel 1986 è il momento di Arcigola, dal 1989 Slow Food, il decollo mondiale del «buono, pulito e giusto».
Azio è protagonista in tutte queste avventure: con Carlin e Ravenà, il soprannome piemontesizzato di questo giovane alto e allampanato, negli anni Sessanta e Settanta cavalcano le scene del Diamant, la sala da ballo dell’Oltreferrovia di Bra. Ma assurgono a notorietà nazionale durante una diretta Rai da Sanremo in occasione di un’edizione del Tenco degli anni Novanta. Loro tre, con altri amici, sono I Madrigalisti dell’Oltretana­ro. Sul palco dell’Ariston Azio, Carlin e Ravenà inventano pezzi che spacciano per frutto di ricerca filogica ed etnomusicale e di recupero di antiche pastorali, cantate da due fanciulle arruolate nella compagnia. Sono composizioni semplici, ispirate al mondo bucolico, ai personaggi dei Vangeli, a san Giuseppe, alla Madonna, al Bambino. Azio, come sempre, si fa carico del controcanto ostinato, il contraltare della narrazione in musica. Senonchè il suo testo, in diretta nazionale Rai, si rivela alquanto ambiguo e suona così: «Pum Pin, Pum Pin, Giuda crin d’en Dio bambin». Imbarazzo immediato del conduttore, termine re­pentino della diretta televisiva, standing ovation della platea del teatro con reiterate richieste di bis.
Mario Luzzato Fegiz, critico musicale del tempo al Cor­riere della Sera, nel suo pezzo del giorno dopo parla dello «strepitoso ed enorme successo di un gruppo straordinario guidato da un nano scatenato». Ahia! Tasto dolente la statura di Azio… Luzzato Fegiz si presenta il mattino dopo col giornale sotto il braccio, la rassegna stampa già diffusa. Il giornalista vuole in­contrare i Madrigalisti per ricevere, lui pensa, elogi per la sua critica. Manco per idea. Azio vola, esplode e lo manda a quel paese urlando come un ossesso soprattutto in piemontese.
A Fegiz la traduzione non serve. Un rapido girare di tacchi e via.
Segnaleranno la sua presenza alla sera, nel buio della platea dell’Ariston.

Articolo a cura di Luis Cabasés