«De André lo insegna: l’evoluzione non si ferma»

La cantautrice genovese Giua: «La mia voce tra i malati di Parkinson e la barca di Giovanni Soldini»

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Al secolo Maria Pie­ran­toni Giua, ma per tutti soltanto Giua, nome d’arte nonché secondo cognome del padre, italo-venezuelano, di ca­sa a Genova. Città in cui lei, cantautrice, compositrice di mu­siche per il teatro e molto altro ancora, continua a preferire alle più gettonate Roma e Milano. D’altra parte, è nel ca­poluogo ligure che si è sviluppata una delle storiche scuole di cantautorato italiano. E proprio Fabrizio De André è un riferimento costante nel suo percorso.

Genova, culla della canzone, vivaio di talenti e promesse.
«Vivaio è la parola più adatta. Il vivaio permette che crescano piante che poi vengono an­che portate altrove. Genova nu­tre, ti permette di crescere. Anche guardando alla conformazione geografica, della città e della Liguria tutta: una conformazione compressa. I diamanti nascono dalla compressione».

Però “dai diamanti non nasce niente”, scriveva De André…
«(ride, nda) Sono loro a nascere dalla compressione».

Battute a parte, cosa la lega così tanto a questa città?
«Il suo essere “servega”, cioè selvatica. Una parola che racconta bene la natura dei genovesi: non ostili ma selvatici. Vieni pure, ma non rompere le scatole. La vita è semplice ma interessante, con il mio lavoro incontro persone belle, diverse, tanti registi e tanti registri».

Passiamoli in rassegna. Davi­de Livermore, regista e direttore del Teatro Nazionale, per cui ha firmato le musiche di “Maria Stuarda”, rivisitazione di Schiller in chiave rock, con Elisabetta Pozzi, altra genovese, e Laura Marinoni. Com’è nata la vostra collaborazione?
«Mi commissionò un jingle per la stagione 2021-2022 del Teatro Nazionale, che aveva chiamato Human Pride, poi subito dopo mi mandò “Il la­mento di Didone” di Purcell da ascoltare. Io ne feci una versione metal e gliela mandai a mia volta».

E poi?
«Mi commissionò le musiche per “Maria Stuarda”. Una di quelle cose che quando ti capitano non ti dimentichi. Un incontro che mi ha aperto una finestra che non sapevo esistesse, che mi ha fatto capire che potevo fare cose che nemmeno pensavo».

Giorgio Gallione, regista e direttore del Teatro dell’Ar­chi­v­olto: una collaborazione intensa anche con lui.
«Regista di “Quello che non ho” e de “La buona novella”, due spettacoli insieme a Neri Marcorè, un altro artista che sono davvero felice di avere incontrato. Una persona semplice e dal talento smisurato, che fa ogni cosa con amore».

Due omaggi a Faber non sono pochi nell’arco di pochi anni. Quando nasce la sua passione per De André?
«La sua musica mi nutre da sempre. Mio padre, che è ar­chitetto ma suona e canta per pas­sione, mi cantava De An­dré fin da piccolissima».

C’è una canzone a cui è più legata?
«Quella che mi ha segnato di più, che mi faceva piangere ogni volta che la sentivo, è “La guerra di Piero”. Oggi riconosco in “Bocca di Rosa”, in quella invettiva piena di ironia, una delle mie cifre».

L’ironia infatti è una cifra ricorrente nei suoi testi. Ci anticipa la scaletta del concerto di dopodomani (sabato 27) all’Auditorium Parco della Musica di Roma?
«La scaletta non è ancora pronta, sto scegliendo le canzoni che più mi rappresentano per tracciare di me un ritratto va­riopinto che arrivi anche a chi non mi conosce».

Ci può anticipare l’inedito che ha promesso di cantare?
«Si intitola “Quella là” ed è un po’ una fotografia di questo periodo storico in cui assistiamo a una rivoluzione importante dal punto di vista dei co­stumi, della libertà, dei sentimenti, eppure c’è ancora chi rema contro, mostrando una chiusura anacronistica».

È “quella là” che rema contro? Non le chiedo il nome, ma insomma…
«No, sono proprio le altre. Questo è un brano in cui il punto di vista dell’ironia è presente fin dall’inizio».

Vede una luce oltre questa chiusura fuori dal tempo?
«Vedo che ci troviamo a rivendicare diritti elementari che dovrebbero essere scontati e quello che è pacifico viene vissuto come una guerra. Ma an­che se si fatica a trovare un passo comune, arrestare l’evoluzione è impossibile. Da che mondo è mondo l’evoluzione dà grandi sberloni a tutti».

Nel brano “Disamore” ironizza sul mondo dei social: qual è il suo rapporto?
«Di amore e odio. Da quarantenne fatico a rapportarmi con questo mondo in modo naturale, come fanno i ventenni, nati quasi con Face­book. Io me ne servo e lo tro­vo anche utile e funzionale al lavoro e a certe relazioni ma non ho ancora trovato un ac­cordo pacifico».

Meglio i rapporti reali: parliamo del Coro della Maddalena, fondato da lei e Pier Mario Giovannone.
«L’idea è quella di far incontrare persone diverse, di diverse culture ed estrazioni, una po­polazione eterogenea e non sem­pre amalgamata che gravita nel centro storico di Ge­no­va. Credo che l’arte sia anche un mezzo per dar voce a chi di­versamente l’avrebbe».

Come i malati di Parkinson del progetto “Parkinsong”?
«Infatti. Un progetto bellissimo nato per volontà di due ri­­cercatrici dell’Ospedale San Martino di Genova, un centro di eccellenza. Ci sia­mo accorte che cantare aiuta i malati di Parkinson a recuperare funzioni che con la malattia avevano perduto, come il volume e l’espressività della voce. I risultati sono inimmaginabili».

Chiudiamo con la traversata oceanica a bordo della barca pilotata da Giovanni Soldini.
«Una traversata partita da Fon­ta­nafredda. Oscar Farinetti, promotore della traversata che si chiamava “7 mosse per l’Italia”, mi vide lì a un concerto e mi propose di partecipare. Io soffro il mal di mare già sul­la boa, però ho detto sì. La pri­ma settimana è stata terribile, poi Soldini mi ha messa al ti­mone e mi sono ripresa».

E si è messa a cantare?
«Certo!».

A cura di Alessandra Bernocco