«Racconto l’Italia da Mussolini a Draghi vince chi ha visione»

«Il premier ha dimostrato di avere visione con il “whatever it takes”, quando salvò l’Europa e la sua moneta. Il dittatore fu vittima dell’orgoglio e a un certo punto perse lucidità: le leggi razziali restano un mistero. Ricordo in Piemonte un convegno sui vini dopo il metanolo: Gaja e Ratti erano disperati, da allora le Langhe sono all’avanguardia»

0
193

Bruno Vespa, nel suo libro “Perché Mus­solini rovinò l’Italia (e come Draghi la sta risanando)” approfondisce l’a­na­lisi dello statista e dell’uomo. È stato difficile aggiungere nuovi dettagli?
«In realtà non mancano le fonti, tutti quelli che hanno conosciuto Mussolini hanno scritto un libro sul personaggio. Il lavoro sta nel pescare dove ancora non è stato fatto, oppure nel mettere a confronto le diverse posizioni. Il compito più affascinante e al tempo stesso complicato è nella scrematura. L’analisi di­venta sem­pre più approfondita, in questo libro si parla delle guerre e le posizioni sono diverse».

Ha trovato nella sua ricerca qualche aspetto di Mussolini meno conosciuto?

«Non credo che molti sappiano che Dino Grandi, il capofila dei “traditori”, il giorno prima della riunione del Gran Consiglio del Fascismo andò da Mussolini a mostrargli l’ordine del giorno. Il Duce quindi sapeva già tutto. Evidentemente pensava, sbagliando, di controllare ancora il partito. Ma ancor più clamoroso è che quando poi andò a Villa Savoia, si illudeva di potersi limitare a riconsegnare al Re il comando delle Forze Armate, mantenendo la guida del Go­verno. E chi propose come Mi­nistro degli Esteri? Grandi. La storia è sempre molto più complessa di quello che sembra».

Quell’ordine del giorno fece di fatto cadere il fascismo, nel luglio del 1943.
«Lo firmò Ciano, pur sconsigliato sia da Grandi sia da Bottai (il trio di punta di quelli che volevano destituire Mussolini). Gli ricordarono quanto fosse sconveniente per lui che, come genero, dal Duce aveva avuto tutto. E invece Ciano, politico miope, pensava con quella mossa di potersi riciclare e di acquisire benemerenze».

La debolezza principale di Mussolini?
«La mancanza di lucidità. Lui aveva detto che prima del ’43 non avrebbe potuto permettersi di entrare in guerra, perché le condizioni dell’Esercito non lo avrebbero consentito. Ma tutti gli uomini che soffrono un po’ di delirio d’onnipotenza, poi cadono. Succede anche in de­mocrazia. Per me resta incomprensibile la sua scelta di promulgare le leggi razziali. Non gliele aveva chieste Hitler, fu una sua iniziativa. Mussolini fino a poco tempo prima era stato difensore degli ebrei. Quando Hitler prese il potere nel ’33, cambiò direzione, an­che se diceva, ed è poco noto, che “bisogna discriminare e non perseguitare”. Cercò di fa­vorire l’espatrio degli ebrei. Certo, tolse loro tutto dal punto di vista economico e sociale. Fu una discriminazione molto forte che oggi chiameremmo persecuzione, ma non ci furono campi di concentramento per ebrei e moltissimi scapparono. La tragedia arrivò dopo il 25 luglio, quando progressivamente i tedeschi occuparono l’Italia. Già arrivando nei paesi balcanici, dove c’erano i militari italiani, chiesero di consegnare gli ebrei. E i nostri si rifiutarono, con l’appoggio del Governo di Roma. In seguito, precipitò la situazione».

Hitler invitò con grandi onori Mussolini in Germania e fu una mossa vincente.

«La seduzione, certo: altra questione decisiva, dopo sette anni nei quali Mussolini non aveva mai voluto incontrare Hitler».

Nella seconda parte del suo libro si parla di Draghi e di un nuovo dopoguerra Covid.

«Segnalo il capitolo sulla pandemia, è abbastanza profetico perché è dove si dice che terremo per molto tempo il Covid in condizioni progressivamente innocue».

Una situazione che favorirà una riparten­za, come dopo ogni guerra?
«È la speranza, il piano nazionale di ripresa va in questa direzione. Il Governo Draghi, addirittura, è figlio della pandemia. Se non ci fosse stata l’emergenza e gli interventi straordinari (cioè i duecento e passa miliardi del piano) Conte sarebbe ancora là. Ma l’ex premier ha commesso errori sia nella gestione finale della pandemia, con l’accentramento dei poteri ad Ar­curi, e nel merito di come spendere i soldi del piano di ripresa. Tutto questo ha portato a un progressivo irrigidimento di Renzi, che è stato il vero motore della caduta di Conte».

Senza alcun vantaggio per lo stesso Renzi?
«Non ci ha guadagnato nulla, anzi ci ha rimesso perché con il Governo Conte-ter avrebbe avuto quei ministri che non ha con il governo Draghi».

È davvero presto per una donna al Quirinale?
«Credo di sì, no­nostante ci siano candidate che elenco nel libro con elementi a favore e difficoltà, come per tutti. Ma, allo stato, l’orientamento è su altri, perché nessuna donna avrebbe la possibilità di raccogliere voti da uno schieramento sufficientemente esteso».

Che cosa può insegnarci, oggi, la Storia?
«Che bisogna avere una grande visione e mantenere i piedi a terra. Mi viene in mente quando Longanesi dice a Mussolini se ha mai visto l’elenco telefonico di New York; forse il dittatore con una visione molto più ampia avrebbe capito che tutto sommato, anche vincendo la guerra, un’egemonia continentale di una dittatura feroce come quella hitleriana non sarebbe stata durevole. L’or­goglio gli ha giocato un brutto scherzo, avrebbe fatto meglio a diventare un debole alleato della Germania. Se non fosse entrato in guerra, avrebbe salvaguardato l’unità del Paese».

Non si può dire, invece, che Draghi non abbia una visione.
«Non c’è dubbio. Lo ha dimostrato fin dal 2012 con il “whatever it takes” quando salvò l’Europa e la sua moneta, andando contro i tedeschi, o almeno una parte di essi. Una scelta di grande visione».

Tornando alla dittatura, perché inizialmente Mussolini ebbe un consenso maggioritario?
«Salvemini, uno dei suoi avversari più irriducibili, disse “abbia una salute di ferro, Mussolini, perché dovrà restare al potere prima che muoia l’ultimo Tu­rati”. Per dire l’aria che tirava nel mondo antifascista. Ma tutti, tranne i comunisti, diedero il benvenuto a Mussolini perché c’era bisogno di un uomo forte che rimettesse le cose a posto e poi si facesse da parte. Una pia illusione, come sempre in questi casi».

Si dice però che, anche nelle attuali democrazie, gli elettori cerchino un uomo forte. È così?

«Ma oggi le democrazie hanno anticorpi che allora non c’erano, le condizioni sono totalmente diverse. È curioso: gli italiani vogliono essere comandati, però a determinate condizioni».

In chiusura: conosce le Lan­ghe?

«Un posto paradisiaco. A proposito di vini d’eccellenza: guidai ad Asti due incontri nell’86 e nell’87 sulle sorti del vino italiano dopo il metanolo. Ricordo gli albesi Gaja e Ratti silenziosi in fondo alla sala, si chiedevano se fossero avviati alla rovina. Invece rinacque il vino e le Langhe furono subito all’avanguardia. A Gaja riconosco sempre il merito di essere stato il primo italiano a farci pagare il vino come quello francese. Un segno di valore».

Un’anticipazione sul prossimo libro?

«Finisce l’era di Mussolini, si parlerà della guerra civile».