«Dobbiamo stare alla larga dai cliché»

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La figura di Piero Dar­danello, monregalese, cronista, editorialista, direttore di Tutto­sport dal 1982 al 1994, è circondata dall’alone del mito per tutti quegli appassionati di giornalismo sportivo (e non solo) attenti sia a cosa sta in superficie, ma anche alla profondità, al­l’evoluzione dei linguaggi e dei contenuti. Dal 2004 Mon­dovì lo ricorda attraverso un premio giornalistico che viene assegnato a chi si è distinto nel suo lavoro: al di là della qualità della scrittura, particolare rilievo viene dato alla capacità di fare “cultura popolare” attraverso il giornalismo. Ed è proprio questo con­cetto parte integrante del­l­a motivazione che ha fat­to cadere la scelta della giuria del riconoscimento, in questo 2021, su Giuseppe Pa­store, 36 anni ancora da com­­­piere, brillante penna e pro­fondo conoscitore del mon­do sportivo. Lo abbiamo in­tervistato, lui che si dice «non abituato a essere in ve­trina», sul suo lavoro e sulle sue passioni.

Pastore, ci racconta il suo percorso giornalistico?
«Ho iniziato a lavorare in re­dazioni di primo piano nel 2013, con Sky, dove sono stato tre anni; poi, tre anni a Milan Tv. Ho lavorato alcuni mesi anche alla Gazzetta del­lo Sport: purtroppo il Covid non ha permesso che il rapporto si consolidasse in mo­do più stabile. Sono freelance, una vocazione che sento più mia. Ho attive tante collaborazioni, tra cui quella con Il Foglio. Scrivo diversi articoli al mese, gli ultimi so­no stati sul derby di Roma e sulle criptovalute nel mon­do del calcio».

Già, il calcio. Grande passione, ma non l’unica, giusto?
«Sono appassionato di cinema, spettacoli, serie tv. Pas­sioni e gusti che si intersecano. Sono per aprire le finestre, far circolare le idee».

Una riflessione sul linguaggio, che dai tempi di Darda­nello inevitabilmente è cambiato. Come definisce il suo?

«Spesso il giornalismo sportivo usa formule un po’ vecchie, anche i giovani si affidano ai cliché. Io cerco di starne al­la larga, nello scrivere vado al­la ricerca della “seconda stra­da”, più raffinata, originale, più contemporanea».

Di cosa non si può fare a meno?
«L’importante è essere chiari, comprensibili. I concetti van­no esposti con la massima linearità, a favore del pubblico».

Ma com’è nato il suo amore per il giornalismo?
«Prima ancora che per la scrittura fu la passione per il calcio. Mi ci appassionai in mo­do travolgente ai tempi di Usa ’94. Ero affascinato da tutto, dai telecronisti, dai giornalisti, dagli studi. Ado­ravo leggere La Gazzetta dello Sport. E me la cavavo bene in italiano, questo ha aiutato».

Ha un modello di giornalista?
«A casa leggevo Repubblica. Gianni Mura era il mio numero uno. Sapeva raccontare in modo chiaro, senza essere mai banale, regalando spunti critici. E poi Paolo Condò, con cui ho avuto la fortuna di scrivere un libro: lui rappresenta la parte non seriosa del giornalismo, leggera, divertente, ideale per lo sport».

Perché?
«Perché lo sport è uno dei po­chi argomenti che veicola mes­­­saggi positivi, la gioia, il festeggiamento. Ha il potere di unire. Ed è bello che venga trattato con leggerezza».

Una curiosità sul suo lavoro: si basa molto sulle statistiche. Come mai?

«Mi piace definirle scherzosamente “inutili”, perché ormai se ne abusa, senza approfondirle. Deriva dalla proverbiale pigrizia dei giornalisti. Il calcio è pieno di questi dati, un po’ misteriosi, quasi magici. Quello che manca spesso è la chiave di lettura, che io cerco di dare».

Torniamo a Mondovì: le è piaciuta la città?
«Molto: graziosa, elegante, un contesto in cui si vive bene. Nell’ambito della cerimonia mi sono piaciuti l’attenzione, la dedizione e l’affetto nei confronti di Pie­ro Dardanello e di un giornalismo di livello di cui condivido gli obiettivi. Mi sono sentito a casa».

Ha già scritto diversi libri, ce n’è uno nuovo in cantiere. Cosa può anticiparci?
«È ambizioso: riguarderà la storia del Milan di Sacchi, un grande racconto “dall’esterno” ma nel dettaglio, che for­se, in modo presuntuoso, vorrei che fosse un po’ la storia “definitiva” di quella squadra e di quel periodo che cambiarono le dinamiche del calcio e furono un po’ lo spartiacque tra tradizione e modernità».