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«Una nuova ricerca per il paesaggio delle Langhe»

Architetto, designer, storico dell’arte e docente: Gianni Arnaudo spiega il suo lavoro, dal “Tea Time” all’oro delle cantine di Barolo e Canelli: «Seguendo il concetto di “sovversione creativa”»

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Gianni Arnaudo ar­chitetto, designer, storico dell’arte e docente universitario. Partiamo da quest’ultimo, perché è un aspetto me­no noto, ma non meno importante per una personalità che il Centre Pompidou di Parigi, con la mostra BigBang – Di­struzione e creazione nell’arte del XX Secolo, ha incluso nel novero di quelle che maggiormente hanno determinato la cultura del ’900. Da studente critico a docente di Tecnologia ambientale alla Facoltà di Architettura per oltre 20 anni, Arnaudo torna ora al Po­litecnico di Torino, al Di­partimento di Ingegneria, nell’ambito dell’insegnamento dell’Architettura tecnica e cultura del costruito della professoressa architetto Emi­lia Garda. Il motivo è un progetto di ricerca sull’analisi delle architetture del vino in relazione al territorio con un focus particolare su Langhe e Roero, che ha ottenuto anche il supporto di Banca d’Alba. «Un corso di studi innovativo – spiega Arnaudo -, basato sullo studio del territorio delle Langhe, con un approccio sperimentale e trasversale rispetto ai molti temi coinvolti dall’argomento, dall’approfondimento del linguaggio e dei sistemi costruttivi tradizionali alle loro evoluzioni green, dai cambiamenti climatici agli innumerevoli spunti culturali collegati». Arnaudo è autore di cantine tra le più famose a livello in­ternazionale: L’Aste­mia Pen­tita e Vite Colte a Barolo e l’ultima in Canelli per la To­sti1820 che, appena progettata e non ancora edificata, ha già vinto il primo premio Re­gula 100 Progetti 2023, un riconoscimento im­portante non solo per il livello di eccellenza degli studi di architetti nazionali e internazionali se­lezionati, ma perché molto ra­ramente attribuito a un edificio non ancora costruito.

Quale la parola chiave per leggere il progetto?

«Riflessione, con la quale mol­tiplicare la visione del pae­saggio e smaterializzare la realtà del costruito attraverso un filtro d’oro lucente, nel quale la natura si dissolve. Due mezzelune rivestite di metallo effetto oro, come la­me di luce attraversano una col­lina appena accennata, mi­metizzata nel paesaggio da una copertura di tappeto er­boso. L’interno è un rettangolo, largo circa 12 metri per una lunghezza di 80. Una ci­tazione della Galleria Grande della Venaria Reale, capolavoro settecentesco che ha le stesse misure. La parete dove è collocato l’ingresso, si riflette in un laghetto artificiale del­la medesima forma a mezzaluna. Attra­verso una sottile passerella sul laghetto si giunge a un portale disegnato co­me un’impronta in macro fissata sul metallo: è la porta di ingresso alla cantina ipogea e il richiamo all’analogo segno impresso nel vetro delle bottiglie della Tosti1820 e il titolo del progetto “L’im­pronta d’oro”. Sulla facciata opposta all’entrata il metallo dorato si apre in curva verso l’esterno, in corrispondenza con una ampia vetrata specchiante. Da questa si accede ad una piattaforma dedicata alla de­gustazione estiva, oltre la quale è previsto che il terreno diventi un campo didattico di approfondimento sulla cultura della vite e dei vari aspetti vitivinicoli».

Quali sono gli obiettivi principali del progetto?

«Tra i primi è la dematerializzazione dei volumi. Il paesaggio continua sulle pareti in un gioco di riflessi dorati, che evocano il colore del vino prodotto dalla committente. Il risultato è ottenuto con la scelta di un materiale di rivestimento innovativo di metallo effetto oro in lastre di grandi dimensioni a fissaggio na­scosto e fughe allineate in modo da creare un effetto di assoluta continuità. Un’altra occasione di dimostrare che un insediamento produttivo può essere un “evento” culturale, in coerenza con le idee che ho già espresso attraverso le mie cantine a Barolo. L’in­tento è di coinvolgere anche l’aspetto emotivo della percezione del mondo dell’enologia. L’oro quindi domina an­che negli interni, dove dal profondo soffitto pendono bol­licine d’oro macroscopicizzate sullo sfondo delle colline, visibili dall’ampia vetrata. Prezioso come l’oro è il rapporto con la natura che ci circonda, è la suggestione che arriva dal progetto de “L’im­pronta d’oro”».

Sue opere sono esposte al Cen­tre Pompidou: il tavolino “Tea Time” è appena entrato nella collezione permanente in­sieme al set in ceramica “Co­lonna di fumo” portando a 7 il numero di opere acquisite dal museo (oltre a “il Ca­pitello” e “Baby-lonia” di cui è coautore con Studio65. Qual è il messaggio critico che vuole trasmettere con questo pezzo?

«Il “Tea Time” continua il percorso creativo sui luoghi comuni con la reinvenzione dell’immagine degli oggetti del quotidiano, che rompe le barriere esistenti tra l’arte e il mondo della strada ed è la sintesi del concetto di “sovversione creativa”, cifra identificativa di tutto il mio lavoro».

Un “antimuseale” che con le più rilevanti istituzioni internazionali ha interazioni consolidate nel tempo, ma non perde di vista quelle con la propria terra d’origine. Nell’area ac­canto all’intervento che ha progettato a San Cassiano per il Gruppo Di­mar, c’è un progetto per un nuovo spazio “gre­en”. Ce ne parla?
«L’idea è stata quella di proporre al Comune di Alba, nell’area accanto al nuovo centro commerciale, la realizzazione di una zona verde con una valenza culturale specifica, cioè il recupero dell’identità. Il disegno del giardino richiama il frammento di un filamento di Dna all’interno del quale è stata inserita una campionatura vegetale tipica delle Lan­ghe. È un progetto che traduce una delle linee fondanti dell’azione e del pensiero della Dimar spa: il rispetto per la storia di un territorio e per le sue caratteristiche, sentite come proprie. Il Green Ca­nyon – questo è il nome scelto – è in Alba il primo giardino tematico, concentrato su essenze locali e didascalico, perché rivolto a stimolare l’approfondimento attraverso le informazioni fornite dai QR, collocati vicino alle piante inserite nei percorsi botanici».

Articolo a cura di Erika Nicchiosini

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