«Fatica e studio: ecco cosa c’è dietro le quinte»

L’attrice Giordana Faggiano si racconta a IDEA: «In scena, la cosa più difficile è la risata»

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A dieci anni Peter Greenaway affidò a lei il ruolo di una bimba ipocondriaca, a ventisei ottenne la candidatura interna alle Maschere del Teatro, a ventotto la vinse. Il 7 settembre scorso, nella pittoresca piazza dell’Università di Catania, ha ricevuto la Maschera come mi­glior attrice emergente 2023. Nel mezzo, una carriera da far invidia a un quarantenne. Per­ché più che emergente Giordana Faggiano è emersa da un pezzo. Non nella mischia a dire il pranzo è servito, ma in ruoli complessi e spesso protagonisti. Giulietta (e va bene), ma anche Ofelia, An­ti­gone, Ifigenia, Viola de “La do­dicesima notte”, e tanto altro an­cora. Fino alla Figliastra dei “Sei personaggi in cerca d’autore”, il Pirandello per antonomasia, che le è valso la Maschera, appunto.

Giordana, due candidature e una vittoria: un gran bel successo.
«Le confesso che lo scorso anno non la presi bene. Questa volta invece l’ho presa con filosofia ma non ho saputo dire niente».

Non la prese bene perché si aspettava di vincere?
«È che questo è un lavoro faticosissimo e il premio lo vivo come il riconoscimento di questa fatica, di un percorso in cui non ho mai smesso di studiare, di reinventarmi. Ogni volta che parte un progetto è più forte la paura per la fatica che la gioia per il nuovo inizio».

Il suo percorso è stato amorosamente guidato da Valerio Bi­nasco, regista con cui ha fatto una decina di spettacoli.
«Valerio ha sempre alzato l’asticella fino a questo ruolo che è forse il più complesso interpretato finora, anche perché ha una grande storia di interpretazioni alle spalle».

Qual è stata la difficoltà maggiore nel dar vita alla Figliastra?
«La risata. Ridere è la cosa più difficile in scena e quella della Figliastra è la più famosa risata del teatro. Un ruolo prettamente performativo: quando entri in scena sai che la baracca la tiri tu, sei tu il carro e sai anche che in quel preciso momento devi ridere perché le battute dei colleghi si agganciano alla tua risata. Io ho trovato la mia, che è la risata di Giordana ma ogni sera mi dico “chissà se riuscirò anche stavolta”. Non è scontato ritrovare la cassa di risonanza interna e c’è da fare un gran lavoro di diaframma».

Lavoro che lei ha imparato molto presto. Vogliamo ricordare i suoi esordi, bambina, alla Quinta Praticabile, la scuola di Genova, che ha partorito un bel numero di talenti?
«Chi passa alla Quinta acquisisce una disciplina e una grammatica scenica che resta. La Titti (così gli allievi chiamano la loro maestra, Modestina Caputo, nda) ha, nei confronti dei bambini, una marcia in più. E sa perché? Perché non ti tratta da decerebrato, ma da persona che se è lì, è per fare sul serio. Il teatro è sacro, ci ha sempre detto, non è ricreazione».

Immagino che entrare alla scuola dello Stabile di Genova sia stata una passeggiata…
«Avevo delle solide basi e, so­prattutto, avevo imparato a portare la voce. Poi lì ho avuto insegnanti eccezionali come Mas­simo Mesciulam e Anna Laura Messeri».

Com’è oggi il suo rapporto con Genova?
«È il rapporto con una città che ho amato ma con cui non riesco più a entrare in relazione come prima, anche se sto per tornare in occasione della produzione de “Gl’In­namorati” di Goldoni, che debutterà il 23 gennaio alla Sala Mer­cato. Sarò Eugenia, diretta da Luca Cicolella, un giovane regista».

Ma come? Non siete a Torino, in prova con “La ragazza sul divano” di Jon Fosse, sempre diretta da Valerio Binasco?
«Brava. Finisco a Genova il 4 febbraio e il 5 sarò a Torino per il Fosse».

È preoccupata? Fosse è un au­tore complesso oltreché un ca­vallo di battaglia di Binasco.
«È un autore che lavora sui silenzi, sui non detti, in cui tutto dipende da dove decidi di mettere la punteggiatura. In scena ci sono due sorelle e stiamo ancora cercando la seconda. Il mio è un personaggio in cui devo lavorare in sottrazione, pur non essendolo».

A proposito di sorelle facciamo un balzo indietro, verso due celeberrime sorelle della tragedia classica: Ifigenia e Antigone. Che suggerimenti le diede Valerio?
«Per Ifigenia la consegna era di non restituire un’eroina ma una quindicenne sacrificata. Valerio tende sempre a umanizzare i personaggi: per esempio ci diceva che anche Agamennone e Menelao, quando sono a casa loro, si cucinano l’uovo fritto. Lo­ro mica sono consapevoli di essere eroi tragici».

Ma così si rischia di precipitare nel dramma borghese.
«No, perché ci sono gli Dei. Gli uomini compiono atti estremi perché ci sono gli Dei, la loro for­za è credere negli Dei. Non si rischia il dramma borghese perché noi non li vedremo mai cucinarsi un uovo fritto».

Come non vediamo Antigone giocare con le bambole. Quanto bisogno c’è, oggi, di Antigoni, ovvero di donne che si ribellano a leggi ingiuste?
«Tanto, ma oggi l’Antigone che c’è in me ha anche tanta paura. Io vivo a Roma e giro con lo spray al peperoncino. Dentro di me c’è tutta la rabbia di Antigone ma intorno c’è una donna fragile, che ha paura».

Eppure lei, genovese, spesso di stanza a Torino, ha scelto di viverci, a Roma…
«Sì, facendo anche cinema e tv, ho scelto di mettere su casa a Roma, che ora è il mio punto di riferimento, oltre che il luogo do­ve faccio e disfo le valigie».

E Torino cosa rappresenta?
«La culla, la casa artistica. Per me Torino è Le Fonderie Limone, il Ca­rignano, l’attrezzeria, i colleghi».

Ci sono registi con cui vorrebbe lavorare in un ipotetico oltre-Binasco?
«Ma certo. Mi sono trovata benissimo con Leo Muscato con cui ho fatto Viola ne “La dodicesima not­­te” di Shakespeare, una commedia che racconta la tragedia di due fratelli ricordandoci che non è un peccato far divertire. E poi mi piacerebbe lavorare con Liv Fer­racchiati, con Massimo Po­polizio, Davide Livermore, Ro­berto Andò, anche a teatro».

Già, perché al cinema ha già lavorato. Mi lascia un ricordo de “La stranezza” e della scena con Toni Servillo?
«Anche lì c’era una risata, un ghigno, ma molto diverso dalla risata della Figliastra».

Sì ma Servillo cosa le ha detto?
«“Giordana, sei una grande attrice, me ne sono accorto da come salivi la scala del Teatro Valle (dove è stata girata la scena, nda). Segnati il mio numero”. Però lei questo non lo scriva».

A cura di Alessandra Bernocco