«Coltivare la gratitudine è la cosa più importante»

Faccia a faccia con Tosca D’Aquino, adesso protagonista su Canale 5 e a ottobre su Rai 1

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Bella esuberante affabile cordiale. Sono ag­gettivi che descrivono molto bene Tosca D’Aquino, la sua napoletanità elegante, rispettosa, nutrita di bellezza e gratitudine, di amore sconfinato per questa sua città meravigliosa e complessa, troppo spesso sotto i riflettori per le sue contraddizioni. Città a cui Tosca ritorna in modi diversi, omaggiandola o lasciandosi omaggiare, con la coerenza che fa parte del suo percorso umano e artistico. Costellato di collaborazioni che sono le tante facce e i tanti colori del medesimo prisma. A lei è andato il Premio Annibale Ruccello 2023, consegnatole quest’estate nella suggestiva piazza dei Racconti di Positano, sede della kermesse diretta artisticamente da Anto­nella Morea e giunta alla ventesima edizione.

Tosca, un premio importante, sia dal punto di vista sostanziale sia simbolico.
«Sono molto legata a Positano e a questo premio perché An­nibale, per noi napoletani, ha rappresentato una svolta im­portante. Un autore pieno di talento che se non fosse morto così giovane a­vreb­be fatto grandi cose».

E nonostante sia morto a soli trent’anni ha lasciato una quan­t­ità di opere che sono tuttora linfa per attori e registi. A quale si sente più legata?
«Ho interpretato “Le cinque rose di Jennifer” nella versione cinematografica diretta da To­maso Sherman, un film uscito nel 1989. Il dramma della solitudine di un travestito napoletano tratto dalla sua prima opera teatrale, omonima, di cui fu interprete lui stesso. Amo molto “L’ereditiera”, un testo che Ruccello ha scritto ispirato dal film di William Wyler, trasferendo la vicenda da New York al golfo di Sorrento».

Nessuna tentazione di interpretare “Ferdinando”, spaccato di un’aristocrazia decadente, raccontato attraverso la vicenda di una baronessa borbonica, raggirata da un sedicente nipote dal nome sabaudo?
«Mi piacerebbe tantissimo. Ma “Ferdinando” non è soltanto uno dei suoi testi più famosi ma il cavallo di battaglia di due grandi attrici come Isa Danieli e Gea Martire, un’amica. Avrò visto la versione con Gea una decina di volte».

Teme il confronto?
«No, ma ci sono testi e personaggi che devono essere affrontati con molto pudore. Un po’ come la Filumena di Eduardo».

Ecco, a proposito. È vero che sarà nientemeno che Titina De Filippo per la Rai?
«In un certo senso. Darò vita a questa figura di donna al di là del personaggio, in un docufilm che è frutto di una ricerca certosina di documenti sulla vita e anche l’infanzia di Titina e della famiglia De Filippo. Ma ci saranno pure numerose immagini di repertorio. Andrà in onda a ottobre, su Rai 1».

E sempre a ottobre, sempre su Rai 1, andrà in onda la quarta stagione de “I Bastardi di Piz­zo­falcone”, la serie tratta dai ro­manzi di Maurizio De Gio­vanni, in cui lei interpreta Ot­tavia, una vice sovrintendente di Polizia tutta d’un pez­zo, nonostante problemi familiari e sentimentali.
«Una gioia enorme. Ho letto tutti i libri di De Giovanni, amo la sua scrittura e questo personaggio, che gioca in remissione, molto lontano da me, mi è entrato nel cuore. E credo che anche il pubblico si sia affezionato alle storie e alla vita privata dei protagonisti, al di là del giallo».

Certo che lei non gioca in remissione. Mercoledì scorso (13 settembre) su Canale 5 è andata in onda la prima di quattro puntate di “Maria Cor­leo­ne”, la storia inventata della figlia di Don Luciano Corleone, boss di Cosa Nostra, gravata anch’essa da un’eredità familiare che le cambia la vita. Lei interpreta Santa Nisticò, spietata donna di ‘ndrangheta. Come se l’è cavata con l’accento calabrese?
«Certo avrei avuto più facilità a interpretare una donna di camorra ma ho lavorato con una coach calabrese e il regista Mauro Mancini, da parte sua, ci ha chiesto una cadenza leggera. Santa è una donna cattiva, senza scrupoli, che non ha seguito la famiglia a Milano ed è rimasta legata al suo ambiente rurale, in Calabria, ma quando scopre la sorte tragica toccata ai suoi, si vendicherà in mo­do crudele».

Lei fa parte di quella fortunata categoria di attori che alterna facilmente tv, cinema e teatro. Quando ha capito che recitare sarebbe stato il suo mestiere?
«Nella pancia di mia madre. Ho frequentato la scuola presso le suore francescane di Maria, a Napoli; allestivano spettacoli veri e propri, affidandomi sempre il ruolo protagonista. In­somma mi sono sentita predestinata. La contezza è arrivata quando ho scelto di iscrivermi alla “Silvio D’Ami­­co” a Roma».

E quindi si è trasferita nella capitale. Un copione che l’accomuna a tanti colleghi…
«Veramente si è trasferita tutta la famiglia. I miei mi hanno talmente supportata in questa scelta che mio padre, che lavorava alla Sip, ha chiesto il trasferimento. Io, da madre, non lo farei mai».

I suoi due figli seguono le sue orme?
«Fanno tutt’altro, per fortuna. Ho sperato tanto che non fossero attratti da questo mondo e così è stato».

Perché?
«Perché è una vita assurda, devi lavorare con la febbre a quaranta, a Natale e a Pasqua, e non esiste la meritocrazia».

Ne è convinta?
«Quando sono uscita io dal­l’Ac­cademia era tutto più facile».

Come vive le frustrazioni?
«Io sono credente e praticante e la fede è un gran supporto. Se credi, ti affidi. Poi fortunatamente non ho avuto grandi frustrazioni. E pazienza se non va­do a Cannes o a Venezia. So­no lucida e coltivo la gratitudine».

Nel 2024 riprenderete in teatro “Fiori d’acciaio”, definita commedia agrodolce senza cinismo, che la vede in scena con cinque colleghe. Un bel successo.
«Il teatro era sempre sold-out. Il pubblico teatrale rappresenta uno zoccolo duro di persone appassionate».

Più di quello del cinema, che langue, è d’accordo?
«Il cinema ha perso anche a causa delle piattaforme streaming che però sono fantastiche perché c’è molto più lavoro ed è possibile azzardare con contenuti più forti, che in Rai faticano a passare. In ogni caso, i numeri de “Il ciclone” oggi so­no irraggiungibili».

Già, “Il ciclone”, che ricordo conserva?
«Meraviglioso. Il film più visto in assoluto nella storia del cinema italiano, superato solo ora da Checco Zalone con “Cado dalle nubi”».

Leonardo Pieraccioni, Giorgio Panariello, Vincenzo Salem­me: alcuni colleghi con cui ha lavorato, che rapporto avete oggi?
«Di fratellanza, come chi ha incominciato insieme e ogni tanto si ritrova».

Che ricordo ha di Troisi?
«Che fortuna averlo conosciuto umanamente!».

A cura di Alessandra Bernocco