«In Valle Maira venivo a scalare muri di ghiaccio»

Nostra intervista a Mauro Corona che si è appena raccontato nel suo libro “Le altalene”

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«Scalate nel Cu­neese? Ci ve­nivo col mio amico Gian­carlo Grassi. D’inverno, in val Maira, salivamo le cascate di ghiaccio. Lui era attratto dalla novità, cercava la prima salita. E poi annotava tutto, il posto, l’ora, le caratteristiche, su un quadernetto che si portava sempre dietro».

Mauro Corona il 9 agosto com­pirà 74 anni. Il grande pubblico lo conosce come vivace po­lemista televisivo, ospite della “Bianchina” Bian­ca Berlin­guer. Ma è mol­to di più: scrittore (pubblica dal 1997), scultore in legno, alpinista (ha aperto circa 300 nuove vie, in prevalenza sulle Dolomiti), lettore vorace. Ciò che è oggi è il risultato di una gioventù condizionata da due eventi terribili: un padre violento, con la madre che fugge per salvarsi la vita, e la tragica ondata del Vajont che, nei suoi circa 2000 morti, portò con sé anche alcuni suoi famigliari. Temi che racconta, quasi confessandosi col lettore, nel suo ultimo romanzo “Le altalene” (Mondadori, 174 pagine, 19 euro).

È la sua autobiografia autentica?

«Nessuna autobiografia è vera fino in fondo, se lo avessi fatto poi mi avrebbero scarnificato ancora di più. Tra pochi mesi compirò 74 anni, portati male e vissuti peggio. Pablo Neruda ha scritto “Confesso che ho vissuto”, io dovrei scrivere “Confesso che ho bevuto”».

Perché ha scritto “Le altalene”?

«Nella mia vita, ormai, quello che c’è dietro è molto più di quanto ho davanti. Perciò ho voluto evitare il rischio di morire frainteso, non volevo lasciare un’idea sbagliata di me. Scriverlo mi ha rappacificato, dovessi morire adesso sarei molto più tranquillo».
Pagina dopo pagina regala al lettore quelle che si potrebbero definire “perle di saggezza”.
«Saggezza? Mi sento uno che ha fatto esperienza, saggio no. Ho imparato che nella vita è meglio non farsi male, bisogna essere attenti».

Lei ha avuto un’infanzia povera, e questo l’ha aiutata a de­finire il concetto di “abbastanza”.
«Avevamo l’essenziale, e questo ti insegna da un lato ad apprezzare ciò che hai, e dall’altro a non desiderare ciò che non conosci. A volte qualcuno mi viene a trovare a Erto, nella valle del Vajont, e poi al momento di andare via domanda “Dov’è che si mangia bene?”. Stai senza mangiare per un mese, rispondo io, e poi vedrai che si mangia bene dappertutto».

Scrive: “Chi da bambino ha visto in faccia povertà, miseria e indigenza, diventa un adulto generoso. O tirchio”. Lei com’è?
«Generoso, penso di aver re­galato almeno metà di quello che ho guadagnato. Molti ar­ricchiti sono diventati tirchi, ma non è per cattiveria, è per il loro patrimonio genetico. Che non è quello del Dna: è quello fondamentale, sacro e tragico che ti inocula la vita, soprattutto nell’infanzia».

Fin da piccolo amava scolpire il legno, ed è stato allievo del grande scultore Augusto Mu­rer, di Falcade. La sua prima lezione?
«Mi fa sedere a un tavolo, c’era un bronzetto di una maternità. Mi mette davanti un foglio bianco e un mozzicone di matita: “Prima di scolpire bisogna disegnare. Copiala”, mi dice. Mi metto al lavoro, quella matita senza punta graffiava il foglio. Lui mi lascia tribolare un po’, poi mi ferma: “Prima di cominciare bisogna affilare gli attrezzi”. Cava di tasca un temperino e, pian piano, comincia a fare la punta alla matita. “Per oggi abbiamo finito, questa è la prima lezione”, mi dice. Il senso è che, prima di iniziare un cammino, ci si deve preparare».

Nel cammino della vita lei ha percorso già un buon tratto. Che idea si è fatta della felicità?
«All’inizio pensi che le cose brutte possano succedere solo agli altri, e poi invece ti accorgi che possono succedere anche a te o a chi ti è vicino: quindi non bisogna dare mai nulla per scontato. Due dei miei quattro figli hanno avuto seri problemi di salute. Felicità è per me quando tornano da un controllo e mi dicono “Papà, va tutto bene”».

Come affrontare i momenti brutti?

«Quando ero bambino, sul tragitto dell’altalena che ha dato il nome al romanzo, a un certo punto sbattevo la faccia contro una rosa che cresceva in un cespuglio lì vicino. Scendo per rompere quel ramo, ma una vecchia mi ferma: che cosa vuoi fare, mi domanda. Le rispondo che voglio togliere quella rosa perché mi dà delle sberle. “E se invece fossero carezze? – mi risponde lei – Carezze di rosa. È questione di vedere le cose dal lato bello, tu invece vedi solo quello brutto”».

A Erto, dov’è nato, s’è combattuto durante la Grande Guerra, e spesso nei suoi scritti ci sono figure di militari. Che cosa pensa delle guerre attuali?
«Sono il dramma della vita, persino dov’è nato Cristo è 2000 anni che si uccidono. In questi giorni ci raccontano che c’è chi cerca di fare la pace, in Ucraina o in Palestina: ma la pace non c’era già prima? Mi pare che quando l’uomo sta bene si stufi, si annoi: e allora scoppiano guerre. Però c’è una cosa da dire».

Quale?

«Le guerre portano la violenza all’ennesima potenza, ma partono dalla nostra piccola anima, incapace di perdono o tolleranza. La guerra siamo tutti noi».

C’è speranza?
«Dobbiamo fare come il gallo del pollaio. Tutte le mattine si alza e canta felice al sorgere del sole. Anche se ha i piedi nella merda».

Salman Rushdie: «A lamentarsi sono sempre quelli che non leggono»

«Oggi giornalisti e scrittori sono sotto attacco, ma certo non è una grossa novità. Dobbiamo tornare a combattere per difendere la libertà di espressione: lo faremo». Il discorso è serissimo, ma alla presentazione del suo ultimo libro “Coltello” (Mondadori, 21 euro) al Salone del Libro di Torino, l’intellettuale britannico di origini indiane Salman Rushdie parla con ironia profonda. Racconta dell’attentato a cui è sopravvissuto nel 2022, quando un giovane lo ha accoltellato 15 volte negli Stati Uniti, durante un incontro pubblico. «Ero in un palco come quello di oggi, ma tra voi non vedo brutte facce – scherza con il pubblico -. Mi è salito sopra, poteva quasi sembrare una situazione erotica».
Chiede Roberto Saviano, che modera la presentazione: «Poi ti hanno tagliato il completo per vedere dove fossero le ferite. È vero che eri preoccupato soprattutto per il tuo abito Ralph Lauren?». Risponde Rushdie: «Beh, era nuovo. Prima, per 23 anni, avevo vissuto a New York una vita del tutto normale: nessuna scorta, nessuna restrizione. Mi davano del prezzemolino perché, a volte, frequentavo anche le feste». Il tutto dopo che, nel 1998, fu oggetto di una condanna a morte (fatwa) da parte del leader politico e religioso dell’Iran, dopo la pubblicazione del suo romanzo “Versetti satanici”. «Chi ha attaccato quel libro, non l’ha letto – pensa al passato l’intellettuale -. Parlava di Londra, più che di religione. D’altra parte, hanno accusato “Ulisse” di Joyce di pornografia, “Lolita” di pedofilia. Sono sempre quelli che non leggono a lamentarsi. Mi sento in buona compagnia». Venerdì, un giorno prima della presentazione ai lettori, Rushdie aveva attaccato la premier Giorgia Meloni per aver querelato Saviano. «Veniamo visti come nemici del potere, mentre c’è una sproporzione» ringrazia lui per la solidarietà. Aggiunge Rushdie: «Anche tu, Roberto, hai vissuto una vita dura come la mia. Scoprire che, nonostante tutto, si riesce ad andare avanti, mi dà molta forza». (Luca Ronco)

Articolo a cura di Enrico Bassignana