Innocenza manifesta

Maurizio Bettazzi, politico pratese, ha fatto tappezzare la città di cartelloni con la sua immagine e la scritta “Assolto dopo 10 anni”. Un modo per far sapere che è stato giudicato innocente e ricordare l’inferno che ha vissuto: perché il popolo, spesso, non aspetta i magistrati e al giudizio sovrappone il pregiudizio

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Ditelo con un cartellone. Mezzo démodé nell’era digitale, eppure cercato, diffuso, efficace. C’è chi dichiara amore, chi cerca un amore possibile intravisto dentro uno sguardo fugace, chi chiede perdono e chi lancia un appello. Maurizio Bettazzi apre un filone nuovo: rivendica e urla innocenza, comunica al mondo il lieto fine di una brutta esperienza che lo ha portato a convivere con i pregiudizi, soffrire per la superficialità di verdetti emessi dalla gente mentre i processi sono ancora in corso. C’è la sua foto, sui cartelloni che tappezzano Prato. E c’è, a caratteri cubitali, la scritta “Assolto”. Presidente del Consiglio comunale cittadino dal 2009 al 2013, ha deciso di far sapere che dopo dieci anni sono cadute completamente le accuse di abuso di ufficio e concussione. «Il fatto non sussiste» hanno stabilito i giudici, escludendo ogni suo coinvolgimento. L’indagine riguardava la consulenza fornita, in concomitanza del ruolo al vertice dell’assemblea cittadina, a una banca del territorio e a una società partecipata dal Comune e le accuse lo spinsero a dimettersi: adesso è dimostrato che il comportamento era specchiato e difatti la sentenza assolve, insieme a lui, l’ex direttore della partecipata e l’ex direttore della banca. Nel mezzo, però, sguardi sospettosi, giudizi affrettati, imbarazzi gratuiti, amicizie e occasioni perdute. «Ho trascorso dieci anni sulla graticola. Basta un’indagine per essere considerati già colpevoli» ha dichiarato al Foglio, mentre faceva tappezzare Prato di manifesti con il suo volto, esito della sentenza («assolto»), durata del disagio («dopo dieci anni») e motivazioni («Il fatto non sussiste»): «L’obiettivo di questa mia iniziativa – prosegue – è far conoscere a tutte le persone della mia città il fatto che non ho commesso alcun tipo di reato e, soprattutto, raccontare il calvario che ho dovuto subire in questi dieci anni».
Non avrebbe raggiunto in altro modo tanti suoi concittadini, perché si sa che le notizie hanno spesso echi opposti: titoloni quando scoppia uno scandalo, e pazienza se è solo presunto, resoconti brevi e seminascosti se tutto si sgonfia e un giudice, completata l’inchiesta e analizzati gli atti e sentiti i test, certifica innocenza piena. Capita che tanti non vengano neppure a sapere come un procedimento giudiziario sia finito e comunque nel frattempo ci sono vite rovinate, diritti calpestati dal tribunale del popolo che si ferma all’apparenza e tramuta il dubbio in prova, statuisce senza appello mentre ancora un’indagine è in corso. Bettazzi finisce così per dare una lezione che supera i confini di Prato: invita a ricordare, e non dovrebbe esserci bisogno, che un uomo è innocente finché un iter giudiziario completo non stabilisce il contrario in un verdetto. Facciamone tesoro in futuro: non ergiamoci a magistrati, non spacciamo certezze che non possediamo, non inchiodiamo persone a responsabilità ancora da accertare. Può capitare a tutti di finire al centro di un’inchiesta. E nulla, se non ci sarà intanto comprensione e rispetto, sensibilità e prudenza, potrà restituire la serenità perduta: nemmeno i manifesti enormi affissi nella propria città che però, almeno, ristabiliscono la verità.