«Dopo Messina Denaro lo stato è più forte ma era già avanti»

0
2

Il tema della giustizia e della sua riforma di cui si parla praticamente da sempre, l’arresto di Matteo Messina Denaro che rende in qualche modo più solido l’attuale governo: sono temi che stanno a cuore al condirettore di Libero, Pietro Senaldi, che recentemente è intervenuto anche nel dibattito sulle intercettazioni e sul ruolo del ministro Nordio. Lo abbiamo contattato per IDEA.

Entriamo subito nel tema: l’arresto di Matteo Messina Denaro ha davvero segnato una svolta nella lotta contro la criminalità mafiosa oppure c’è ancora molto lavoro da fare?
«Lo stato contro la Mafia stava già vincendo. Certo, gli mancava proprio l’arresto di Messina Denaro che è stato quindi un risultato importantissimo. Questo però, diciamo così, non va considerato come il gol che sblocca la partita ma come quello che aumenta il vantaggio. Lo stato oggi è semplicemente un po’ più forte, perché è stato assicurato alla giustizia colui che da 15 anni era il capo indiscusso della mafia».

Che cosa pensa dell’opinione secondo cui la cattura di Messina Denaro sia stata in qualche modo facilitata, se non addirittura favorita da lui stesso ormai malato?
«La penso esattamente come quasi tutti, ovvero che lui aveva perso potere, probabilmente anche a causa della malattia ma soprattutto per il fatto che le indagini degli inquirenti gli avevano creato un vuoto intorno. È come la domanda se sia nato prima l’uovo o la gallina: prima ha perso potere e l’hanno preso, oppure ha perso potere perché si sentiva braccato? Secondo me l’azione della polizia ha avuto il merito in questi anni, silenziosamente, di ridurre l’operato della mafia e di indebolirne il capo assoluto. La questione dei problemi fisici di Messina Denaro è stata secondaria. Lui si è trovato spalle al muro».

Pietro Senaldi: «L’azione degli inquirenti silenziosa e decisiva»

Questa operazione può contribuire a portare un definitivo cambiamento nella cosiddetta cultura mafiosa?
«È meno radicata oggi di un tempo, questa mentalità. E comunque non dimentichiamoci che parliamo di un personaggio di 60 anni che di conseguenza era attivo nel settore da almeno 40 anni e si faceva forte di alcuni punti fermi: il primo è che aveva raccolto un patrimonio da qualcosa come 4 miliardi. Era in pratica uno stato nello stato, manteneva un sacco di persone e qui stava la sua forza, nella sua rete economica più che nella mentalità diffusa. Quando tu hai la disponibilità di quella cifra, in un territorio tra l’altro desolato economicamente, sei a tutti gli effetti una potenza economica. Tutto deriva da lì, i siciliani non hanno dentro di loro una natura “mafiosa”, vivono in un terreno invaso e dominato dalla mafia e quindi alcuni ne sono dipendenti e altri ne sono intimoriti come chiunque di noi al loro posto».

Per i pentiti, oppure per chi sa qualcosa, rimane molto difficile dare una mano allo stato contro la mafia. Cosa si può fare?
«Questo però succede non solo in Sicilia, ma anche negli Stati Uniti o in Colombia… Ovunque. Accade sempre quando tu sfidi un’organizzazione criminale così forte, la tua vita diventa molto complicata».

Parliamo di giustizia in Italia, altra questione delicata…
«Anche in questo caso, la materia è delicata ma la sfida non la vinci certo in dieci minuti. La questione è che ormai da trent’anni, anzi probabilmente da più tempo, il potere giudiziario esonda. E si è fatto via via sempre più forte e sempre più influente sulla politica. E addirittura la sinistra si è fatta a volte forte di un rapporto privilegiato con alcuni magistrati. Ma cosa è successo? Che adesso la problematica è venuta fuori finalmente, la giustizia non riesce a fornire ai cittadini italiani – che la sostengono con le tasse – i servizi minimi accettabili che sono quelli di avere un processo equo in un tempo ragionevole. Se non accade così, il processo è iniquo per definizione anche quando si arriva alla sentenza formalmente migliore e anzi ineccepibile. La giustizia che arriva tardi è una giustizia negata, anche se magari la sentenza è giusta. Il fatto che l’attività si sia catalizzata verso il ruolo politico che alcuni magistrati hanno scelto di esercitare, di fatto ha indebolito la magistratura stessa agli occhi dei cittadini che si domandano quale sia il ruolo dei giudici. E poi in tanti si domandano: ma come, fai processi sull’abuso d’ufficio e su trecento casi arrivi solo a quattro condanne, mentre io aspetto da dieci anni che la giustizia risolva liti di eredità, o in condominio… Questa eccessiva attenzione alla loro missione politica, alla fine ha messo in discussione la figura del magistrato agli occhi dell’opinione pubblica che trent’anni fa ne aveva massima considerazione. La riforma viene da sé. Un po’ come per Messina Denaro – anche se il paragone è del tutto improprio -, quando tu perdi forza, è lì che ti colpiscono. Ma hai tutte le possibilità di riformare il tuo settore e vuoi difendere i privilegi grazie ad un appoggio politico oramai minoritario, allora non offri al cittadino ragioni per stare dalla tua parte. Perché non gli offri il servizio per cui ti paga».

L’Europa può avere un ruolo importante anche a proposito della giustizia?
«Saranno cent’anni che l’Eu­ropa ci dice che la nostra giustizia non funziona. Però i moniti l’Europa quando servono li tira fuori, quando non servono li nasconde sotto il tappeto. Noi non abbiamo bisogno che l’Europa ci dica cosa dobbiamo fare. La riforma della giustizia era una delle condizioni del Pnrr. E poi abbiamo scelto Cartabia che però è una teorica della giustizia e magari – estremizzo – un processo non lo ha neanche mai visto. Un po’ come quando fu data la gestione del Paese a Monti, che non aveva mai gestito nemmeno una drogheria. Cartabia è una grandissima giurista voluta da Mattarella che è a sua volta un grandissimo giurista, ma ha partorito un topolino non perché non sapesse le cose ma perché non c’erano le condizioni politiche per procedere. I numeri li dava un Pd che non voleva la riforma. E dal canto suo Draghi non voleva alienarsi i rapporti con la sinistra».

C’è anche un altro problema, contro la mafia servono procedure che magari l’Europa non contempla.
«Parliamo di un’Europa che paragona il vino al whisky e che vorrebbe uniformare i serramenti di Oslo a quelli di Venezia…».

CHI È

Nato a Milano 53 anni fa, è condirettore del quotidiano Libero (assieme a Sallusti) che ha diretto tra il 2016 e il 2021. In questo stesso giornale ha iniziato la sua carriera giornalistica, con una breve parentesi alla redazione de Il Giornale dove ha ricoperto l’incarico di caposervizio

COSA HA FATTO

Negli ultimi anni si è particolarmente distinto per le sue partecipazioni ai dibattiti televisivi un po’ su tutte le reti, da La7 (ospite di “Omnibus” e “Tagadà”) fino alle trasmissioni Rai (“Cartabianca”, talk condotto da Bianca Berlinguer), Mediaset e anche Sky

COSA FA

Si occupa delle questioni politiche ispirando per Libero posizioni sempre molto nette che si traducono in prime pagine di forte impatto, sempre al limite. L’area di riferimento è quella del centrodestra. L’estate scorsa è stato ad Alba assieme a Guido Crosetto per un incontro organizzato da Fratelli d’Italia. «Qui vengo sempre con grande gioia», ci aveva detto