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«Alla vita chiedo di poter restare tanto sul palco»

La passione di Federico Buffa per il suo lavoro: «Meglio che in tv. E sono riconoscente per tutto»

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Incontrare Federico Buf­fa è sempre un’occasione speciale, per i concetti che esprime e per co­me lo fa. La conferma arriva dai partecipanti all’evento di formazione organizzato di recente da Alambicco Academy nella location del brand torinese e internazionale di penne Aurora.

Buffa, a lei cosa resta da questi incontri di formazione de­dicati agli imprenditori?
«Mi piace sempre molto sentire che cosa pensano loro, apprezzo molto di più se mi fanno domande. Questo per capire quali esigenze hanno, che cosa trovano interessante in contesti diversi ma mutuabili, mi piace sentirli parlare».

La materia sportiva, che lei conosce a fondo, rappresenta un riferimento prezioso per fare presa anche sui manager?
«Lo sport resta una metafora sensazionale, ti viene sempre incontro. Il fatto è che, parlando di sport, hai tutto quello che serve per trasferire contenuti preziosi al mondo imprenditoriale e viceversa».

Alla platea di imprenditori ha parlato di personaggi epocali come Muhammad Alì.
«L’idea è sempre la stessa: sia­mo ancora all’eroe greco, ovvero all’uomo e le avversità, al rapporto che si sviluppa tra l’uomo e le avversità stesse, do­ve per uomo si intende genere umano. Questo dualismo è una storia che non finirà mai, cercheremo sempre le risposte alle avversità, avremo sempre da raccontare il duello con gli impostori della vita, ovvero la vittoria e la sconfitta, nella ricerca di un equilibrio tra questi temi eterni».

I campioni sono grandi esempi.
«Sono atleti che a un certo punto si rendono conto che il loro sistema è superiore a quello degli altri. E allora tutto è riassunto nell’ellisse talento-sacrificio».

La sua passione per lo sport è stata anche la molla per viaggiare e conoscere il mondo?
«È vero, girare il mondo attraverso lo sport è stata la parte più formativa della mia vita. Però ricordo anche quando con mio padre viaggiavamo in macchina, con tutta la famiglia. Lo facevamo spesso. Lui era uno che aveva l’idea di non aver mai visto abbastanza, quindi facevamo deviazioni e ci fermavamo per visitare posti nuovi. La voglia di viaggiare e trovare un’integrazione con i luoghi, mi è rimasta».

Lei è un grande storyteller e ci troviamo nella sede di una grande azienda di penne da scrivere.
«È paradossale, io ho due sole penne con le mie iniziali e sono entrambe Aurora».
La forma scritta e quella della comunicazione digitale: come vive questi due estremi?
«Ho radici troppo solide nel Novecento per non rispondere in questo modo: riconosco solo la parola su carta. È così, tanto che in molte occasioni ho sperimentato che quando devo comunicare qualcosa di forte a qualcuno, ho bisogno assolutamente di scrivere. Voglio che il destinatario del messaggio legga la mia scrittura. Tra­sferire invece dalla stampa un concetto sullo schermo è efficace, ma non quanto avviene su carta».

La formazione agli imprenditori parlando di campioni:
«Sono atleti che si accorgono di essere superiori.
Poi vale la regola talento-sacrificio»

Aver conosciuto il mondo legato a quella comunicazione e poi il contesto attuale, può essere un valore aggiunto?
«Nel mondo digitale non sono mai stato in una redazione, però penso che la logica sia rimasta la stessa, si deve scrivere tenendo conto del tempo. Ricordo che si doveva consegnare entro la mezzanotte perché il giornale andava in stampa e doveva essere distribuito in giro per l’Italia, la deadline andava rispettata. Quando vedo i corrispondenti di guerra dover fare il loro lavoro nei limiti di queste tempistiche in occasioni a dir poco disagevoli, penso che siano fenomeni. Si tratta in assoluto di uno dei mestieri più difficili».

Pallacanestro e calcio: sport diversi, ma stessa passione per lei?
«Se devo scegliere, dico basket perché lo sento molto più vicino a me. Culturalmente si tratta di discipline diverse, uno sport è stato inventato dagli inglesi e l’altro dagli americani: potrebbero sembrare mondi simili ma non è così vero. Il basket nasce a livello scolastico, fu inventato da un professore di educazione fisica che doveva tenere buoni gli studenti in occasione di un inverno rigido, di quelli che allora erano consueti. Pensò a un gioco indoor ed ebbe l’idea di usare due cestini di pesche a dieci piedi, cioè tre metri e 0,5. Il calcio invece è stato pensato dagli inglesi all’aperto, da giocarsi in undici contro undici semplicemente perché quello era il numero dei letti nelle camerate dei college, altrimenti non c’era motivo. Però gli inglesi erano convinti che lo sport fosse sinonimo di dilettantismo, infatti è proprio questo il significato del termine “amateur”, uno che ama quello che fa. Non a caso gli inglesi non hanno pensato al professionismo fino a molto tardi, laddove invece per gli americani è un concetto fondamentale. Sono approcci diversi. Il calcio è l’esperanto del mondo, lo giocano tutti, in tutti i luoghi del mondo. Perché è facile, butti per terra un maglione e quello è un palo, poi basta un pallone fatto di stracci. Tutti i campioni, fino a poco tempo fa, sono passati da queste premesse. Il basket ha più cose dentro e la componente razionale e analitica è forte».

Il basket è matematica mentre il calcio è più “metafora della vita”?
«La casualità nel calcio è determinante. Nel basket non puoi restare in difesa per 90 minuti e magari segnare in pieno recupero su rinvio e contropiede. Questo è il fascino del calcio, parte da quella costellazione clandestina che lo governa e che rende imprevedibile tutto. Il basket è più razionale. Adesso il calcio cerca di scimmiottare gli sport più analitici, sezionando le partite. Però i ciuffi d’erba hanno poco a che fare con gli altri sport».

Lei ha detto di aver seguito nella vita una lista di traguardi da raggiungere. E che il teatro era l’ultimo. Ora che cosa c’è dietro l’angolo?
«Altri dieci obiettivi? In realtà, mi sembra di aver avuto così tanto dalla vita, di essere stato così privilegiato che sono riconoscente all’esistenza, alle persone che mi hanno aiutato. Cerco di esserlo continuamente. E non posso chiedere altro. Resta però un pensiero. Ha presente quelle cerimonie orien­tali con le lanterne mandate per aria dove ognuno le accompagna con un desiderio? A Taiwan mi è capitato di vederne una anni fa e, a parte una questione augurale per una persona a me molto cara, pensai che avrei voluto stare il più a lungo possibile sul palcoscenico. Un po’ perché ci sono arrivato tardi, poi perché quel fascino l’ho subito ed è qualcosa che ti cambia la percezione, ti rendi conto che stare davanti alla macchina da presa con la luce rossa accesa, è altra cosa rispetto al rapporto umano e psicofisico che si crea dal palco con le persone».

A novembre è stato ad Alba: quali sensazioni?
«Sono stato ospite di Farinetti, in piena Langa che oggettivamente offre il più bel panorama vinicolo d’Italia e forse nel mondo. C’è un’atmosfera propizia per tutto quello che riguarda l’enologia. Gli americani che si sono comprati il Parma hanno speso tanto, ma un appezzamento di terreno in Langa vale tanto di più di una squadra che vuole tornare in serie A».

BaNNER
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