«Grazie a vasco ho dato più stile alle mie canzoni»

Irene Grandi in tour con “Io in blues” si racconta a IDEA: «Trasformata da un viaggio in Oriente»

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Non solo rock. Se chiedi chi è Irene Grandi a un ascoltatore generico di musica popolare, probabilmente ti risponde che è tra le più stimate cantautrici rock che abbiamo in Italia. E infatti lo è. La voce a tratti graffiata, energica come il fisico, minuto ma innervato, scattante, i gesti rapidi, il look, stivali e total black, raccontano certamente di un’anima rock che le appartiene. Ma nelle sue scelte – musica, testi, citazioni, riferimenti – c’è molto altro. A cominciare dal blues, proprio nel senso che il blues rappresenta l’inizio, i suoi esordi e la sua formazione, l’imprinting che le hanno lasciato gli anni di gavetta nei locali fiorentini. E l’imprinting, si sa, quando è ben radicato, torna a farsi sentire e a reclamare la sua parte. La sua risposta è “Io in blues”, il tour che da circa due anni sta registrando il tutto esaurito, in cui Irene rende omaggio ai suoi ‘monumenti’ passati e presenti.

Quando è nata l’idea di tornare al blues?
«È nata nel secondo anno di pandemia. Immaginare un futuro fatto di cose nuove era sempre più difficile, mi rendevo conto di un certo sfilacciamento della mia squadra di la­voro. L’illuminazione mi è arrivata in un piccolo locale di Prato. Ne ho parlato con i musicisti che ne sono stati entusiasti ed è cominciato il lavoro di ri­cerca. Ne è nato un buon concerto».

Interpretare Etta James, Otis Redding, Willie Dixon, Tracy Chapman, Sade Adu è stato un modo di tornare alle sue origini?

«Sì, credo che tornare alle radici fortifichi. Le mie prime canzoni nei locali erano un omaggio al rhythm and blues e già nel primo album (“Irene Grandi”, 1994 ndr) avevo inserito “(You Make Me Feel Like) A Natural Woman” una cover di Aretha Franklin. Questo tour ci aiuta a riacquistare fiducia dopo due anni di buio ed è comunque un esperimento nuovo pur non proponendo un album di inediti. Inoltre abbiamo una special guest vissuta a pane e blues, Pippo Guarnera che suona l’organo hammond e ci ha dato una forte ispirazione per costruire gli arrangiamenti».

Il rock però è sempre presente.

«È la mia indole anche se il rock cantato in italiano si tinge di melodia. Il blues fa parte della mia formazione ma è più difficile renderlo in italiano. Il rock melodico, con la voce graffiata condita con riff e batteria, viene fuori meglio».

Il passaggio dal blues al rock è avvenuto anche grazie all’incontro con Vasco Rossi che per lei scrisse “La tua ragazza sem­pre”, seconda classificata a Sanremo 2000.

«Sì, l’incontro con Vasco è stato fondamentale e si è rafforzato dopo la seconda collaborazione, quando scrisse per me “Prima di partire per un lungo viaggio”, una canzone con uno stile preciso che ha scavallato gli anni».

Andate d’accordo?

«Festeggiamo a champagne ad­dirittura prima di incidere un brano. Lui ha molta fiducia nei pezzi che scrive e dice che se una canzone funziona suonata con la sola chitarra, poi l’arrangiamento si trova».

In scaletta ci sono anche brani di cantanti italiani: Lucio Bat­tisti, Mina, Pino Daniele, e alcuni classici suoi, ma arrangiati in chiave rock-blues. “Bruci la città”, per esempio, a Roma è stata accolta da un’enorme ovazione. Che rapporto ha con il pubblico?

«Questo concerto mi ha portato a rivalutare l’attesa dei miei pezzi, come se ogni volta fosse un nuovo esordio. Il pubblico li aspetta».

Come vive il successo?

«Lo vivo a giorni alterni. Ha molti vantaggi perché ti vengono riservate attenzioni maggiori ma ti toglie anche un po’ di libertà. Soprattutto all’inizio, quando sono passata dalle cantine a Sanremo, ho sofferto la popolarità improvvisa che mi è cascata addosso. Non l’avevo presa in considerazione. Poi ho imparato ad adattare la mia vita in modo che i vantaggi siano maggiori degli svantaggi».

Come?
«Scegliendo di fare le vacanze all’estero. E comunque alla fine la musica ti ripaga di tutto».

Di Pino Daniele, con cui ha cantato “Se mi vuoi”, disse «mi ha insegnato a mettere le sillabe nel ritmo della sua musica». Cosa significa?
«Pino usava tutte le scansioni ritmiche, anche minime, e le inseriva in modo creativo nella frase musicale. Un virtuosismo, il suo, che però sembra naturale, non facile da riprodurre. Ma la sua scrittura e il suo modo di cantare ha allargato i miei orizzonti».

Una domanda alla cantautrice: come nasce una canzone?
«Io compongo in team, aggiusto su di me testi già scritti, metto le mani su quel che canto. Lavoro un po’ al testo e aggiungo qualche frase musicale alla chitarra, uno strumento con cui però non ho continuità, imparo e disimparo. Lavorare in team con musicisti diversi mi regala la varietà di cui ho bisogno».

Parliamo dell’album realizzato insieme a Stefano Bollani?
«Un album jazz, anche nel metodo di lavoro. Una collaborazione nata a piede libero, senza la protezione di una casa discografica che indirizzasse le scelte. Abbiamo impiegato pa­recchio tempo a costruire il re­pertorio ma poi lo abbiamo registrato in una settimana».

Anche lei «prima di partire per un lungo viaggio, porta con sé la voglia di non tornare più»?
«In un certo senso sì. Perché sono aperta a tutto ciò che può capitare. Ci sono esperienze dalle quali si torna trasformati».

Il viaggio del cuore?

«L’Oriente, proprio perché mi sono sentita trasformata, ho scoperto lo yoga, che più che un modo di mantenersi in forma è proprio uno stile di vita, un modo per controllare e gestire le emozioni. Ho imparato ad apprezzare la solitudine, i ritmi lenti. Prima dei 40 anni non avevo mai viaggiato da sola ma ora c’ho preso gusto».

Articolo a cura di Alessandra Bernocco