«Dominano le immagini ma il racconto vince: regala bellezza»

Il 5 novembre arriva a Serralunga d’Alba, ospite della Fondazione E. di Mirafiore, il noto giornalista sportivo Federico Buffa. Rivista IDEA lo ha intervistato: «Proverò a spiegare come si costruisce una storia»

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Federico Buffa, giornalista e telecronista sportivo, racconta ap­passionanti e coinvolgenti storie di sport da circa dieci anni. Lo fa con un’invidiabile padronanza dia­lettica e una cifra stilistica inconfondibile, aspetti che lo hanno reso un’icona del settore, oltre che fonte d’ispirazione per un’intera generazione di cronisti sportivi. Di­nanzi all’affascinante oratoria dell’“Avvocato” mila­ne­se, an­che una sem­plice chiac­­chierata diventa occasione di confronto, terreno fertile per spunti di ampio respiro culturale. In occasione del­la sua par­tecipazione, sabato 5 no­vembre, al “La­bo­ratorio di Re­sistenza permanente” organizzato dalla Fon­da­­zione E. di Mirafiore (i dettagli nell’altra pagina), noi di IDEA lo abbiamo intervistato.

Buffa, con lei è nato un nuovo modo di raccontare lo sport. Come si è approcciato allo storytelling?

«Non ho questa percezione, innanzitutto. Si è trattato di una coincidenza, nel senso che non ci avevo mai pensato. Sono telecronista Nba, non ave­vo alcuna intenzione di fare qualcosa di particolare fuori dal basket americano, finché la mia caporedattrice, Paola Ellisse all’epoca, mi chiede di riempire dei vuoti delle dirette. Mi metto d’accordo con Ales­san­dro Ma­moli e, in maniera quasi clandestina, co­me in una tv privata an­ni ’80, giriamo con bassa lu­ce “L’Nba dei vostri padri”».

Cosa succede a quel punto?
«Federico Ferri, all’epoca re­sponsabile del calcio e adesso direttore di Sky Sport, nota questi speciali e mi chiede di proporli anche per il calcio. “Non ci penso nemmeno”, di­co. Poi un sabato mattina mi portano in uno studio, alle mie spalle ho solo un velluto rosso, e racconto la storia dell’infanzia di Diego Armando Mara­dona. Dieci giorni dopo, questo prodotto improvvisato viene mandato in onda e genera un po’ d’attenzione. In seguito, per il “Giorno della Memoria”, una mia collega bravissima, Vero­nica Baldac­cini, propone di fare qualcosa e, anche per dovere ci­vico, di­co di sì: giriamo uno speciale sulla storia del calciatore e al­lenatore ungherese rimasto vittima della crudeltà nazista, Ar­pad Weisz, tratta dal libro di Matteo Marani. Visto an­che l’argomento, lo speciale non passa inosservato e nasce quindi un format “adatto” alle mie caratteristiche».

Prima diceva di non aver rivoluzionato lo storytelling. Non crede però di aver co­munque fatto scuola o di aver lasciato un’eredità?
«Simona Ercolani, l’ideatrice del programma “Sfide”, ha cam­­biato lo storytelling con l’idea geniale di fare un viaggio nel tempo e raccontare le centinaia di storie di campioni che l’Italia ha avuto negli ultimi cinquant’anni. Tutto quello che è stato fatto dopo parte dalla sua idea, che met­te la narrazione all’interno del palinsesto sportivo. Posso in­vece riconoscere di aver la­sciato un’impronta nel­­le telecronache Nba, quello sì. Io e Flavio Tranquillo ascoltavamo Giordani e Dan Peter­son, che hanno asfaltato la strada, come Clerici e Tom­ma­­si nel ten­­nis, ideatori di un linguaggio alternato e adatto alla di­versità delle loro personalità. Le telecronache fat­­te con Fla­vio o­biet­ti­v­a­men­­­te sì, hanno cam­biato il mo­do con cui si guarda il ba­sket in tv. E, in effetti, quando sento le cronache dei più giovani, mi accorgo che le cose che dicevamo quindici anni fa, da qualche parte, sono rimaste e tornano fuori. È l’unico posto dove di­rei che c’è un’influenza, nel­la se­man­tica, nel linguaggio».

Non è confortante che lo sport mantenga una componente nar­rativa, nonostante scan­dali e derive?
«Diciamo che è l’antidoto. Spe­cial­mente per il calcio, che a me sembra una panchina su cui piove ininterrottamente da trent’anni, il “quartiere a luci rosse dello sport”, come un tem­po era definita la boxe».

Come si coniuga la necessità di trovare l’“antidoto” con il concetto di imprenditorialità?

«Questo dipende da chi è alla gui­da. All’epoca, l’ammi­ni­stra­­­tore delegato di Sky era An­drea Zappia: lui pensava che si po­tesse rallentare, di un battito, il ritmo televisivo e che fosse bel­lo recuperare storie di sport del passato. Le storie del passato so­no quelle che hanno la brina sopra, la nebbia del mito e po­che im­magini, peraltro in bianco e ne­ro. Tra vent’anni prevarrà la dittatura dell’immagine, men­tre la bellezza del racconto narrato è quella di non ave­re tante immagini e, quindi, di lasciarsi condurre a un’idea di come possa essere andata».

Cosa si sente di consigliare ai giovani che intendono di­ven­ta­re giornalisti?

«Consiglio loro di non perdere mai la propria originalità. In un mondo completamente diverso da quello che c’era prima, dove erano pochissime le op­portunità di farsi co­noscere, oggi si hanno tante pos­sibilità in più senza entrare in una re­dazione. Credo che competenza e originalità varranno per sempre. A un ragazzo, quin­di, direi: “Pre­pa­rati e cerca di avere un taglio originale”».

Sarà a Serralunga d’Alba per il primo incontro del “Labo­ra­to­rio di Resistenza permanente”. Ci anticipi qualcosa del­la sua lezione.

«Non sarà una lezione, non posso insegnare niente a nessuno (ride, nda). Il fulcro sarà la tecnica di costruzione di una storia, un’analisi conversata su come si possa provare a costruire un racconto. Si tratterà di una destrutturazione del racconto, in sostanza».

Chiudiamo con una domanda più personale: qual è il suo rapporto con le Langhe?
«La mia è una frequentazione annuale e ripetuta, le Langhe sono proprio il posto della vi­ta. Prima di tutto non sono così lontane da casa mia, mio padre mi ci portava da piccolo e negli ultimi anni ho conosciuto persone di alto livello, in particolare tra gli imprenditori del vino. Visitare questi luoghi con loro offre una chiave di lettura diversa rispetto a quando lo si fa da soli».