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«Il mio segreto? Non aver paura dei fallimenti»

Intervista all'inventore del famoso gioco da tavolo "Pictionary"

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«Non ho mai pensato di poter fallire, ho provato a realizzare la mia idea. È andata bene. Ma se fosse andata male avrei ricominciato senza rimpianti. Il mio mantra è: se devi fallire, fallo in fretta e ricomincia da capo. Tutte le volte che vuoi». Così sintetizza la sua vita Robert Angel ovvero mister Pictionary, come lui stesso ama definirsi, davanti al panorama di Barbaresco al tramonto. Angel è l’inventore del gioco da tavola degli anni ‘80 che ha venduto più di 38 milioni di esemplari in oltre 60 Paesi del mondo e quello che ripete con convinzione è che non c’è niente di sbagliato nel commettere errori. Anche più di uno. Quello che supporta questa teoria è il suo successo: il suo è infatti l’unico gioco da tavolo best-seller mondiale a non essere nato da una azienda di giocattoli ma dalla mente di un giovane che nella vita faceva tutt’altro. In seguito, Angel è rimasto a capo della distribuzione di Pictionary per decenni prima di vendere il gioco a Mattel per svariati milioni di dollari. Poliedrico e curiosissimo, Angel ha passato la settimana scorsa qualche giorno tra le cantine delle Langhe per scoprire il mondo dei nostri vini e noi ne abbiamo approfittato per intervistarlo.

Come è nata l’idea del gioco?
«Dopo la laurea in economia al Western Washington Uni­versity, nel 1982 iniziai a lavorare come cameriere a Spokane, nello stato di Wa­shington, dove mi trasferii insieme ad alcuni amici con cui condividevo un piccolo appartamento. Dopo il turno serale continuavamo la festa a casa nostra e, per divertirci, avevamo questo passatempo di dividerci in due squadre e disegnare quello che ci veniva in mente mentre gli altri del nostro gruppo dovevano indovinare prima che finisse la sabbia nella clessidra. Era una versione personalizzata di quello che in inglese si chiama “sciarada” ovvero il gioco dei mimi. Chi ci riusciva, vinceva una birra. Il gioco era una scusa per bere un po’».

Le parole le inventavate?
«Usavamo semplicemente un dizionario, ricordo ancora una delle prime parole che disegnai: oritteropo, una specie di formichiere. Diffic­i­lissima! Il cartoncino con l’elenco di parole da disegnare è venuto dopo. Ad un certo punto, visto il successo di questo passatempo che nel frattempo si era allargato alla nostra cerchia di amici, iniziai a pensare di renderlo un prodotto vero e proprio, senza nemmeno aver idea di come fare davvero».

Come si passò alla produzione vera a propria?
«Per prima cosa mi fu chiaro il nome. Siccome la chiave del gioco erano le immagini pensai subito a Pictionary, composto da (Pics, la contrazione di pictures) più dictionary, come se fosse un vocabolario di immagini. Trovai poi due amici con cui condividere il progetto e uno zio disposto a prestarmi il denaro che non avevo per partire. Avevo creato una startup ancora prima che si chiamassero così. Par­timmo alla buona, senza un’idea precisa di come procedere».

Come andò?
«Quando decidemmo di lanciare davvero il gioco su più larga scala, prendemmo l’elenco del telefono in mano e iniziammo a chiamare i potenziali fornitori per cartoncini, tabellone centrale, dadi, clessidra, matite. Tutte aziende con cui prendere ac­cordi commerciali per i quali non avevamo la minima esperienza. Devo ammettere che ci fu un certo livello di incoscienza nel nostro procedere ma sapevamo di essere una squadra in qualche modo vincente».

Ovvero?
«Fin dal primo momento decidemmo una regola: seguire chi argomentava con più passione il suo punto di vista. Chi si entusiasmava di più aveva di certo in mente una buona idea, questa era la nostra teoria. Un metodo un po’ empirico che però funzionò. A pensarci adesso non avevamo nemmeno le basi sul mondo del business, ma non mancavamo certo di entusiasmo ed energia per le notti insonni. Non sapevamo dove stavamo andando ma almeno eravamo insieme».

È bello sentirglielo dire. Spesso queste storie di successo hanno come sottotraccia liti e rivendicazioni di diritti tra gli inventori, come è accaduto per Facebook e que­­sto rovina un po’ la storia.
«Non nel nostro caso, ci siamo sempre fidati del team, fin dalla prima crisi. Ad una settimana dal lancio l’azienda produttrice che stava stampando le cinquecentomila carte del gioco ci disse che non aveva le risorse per smistarle e ordinarle nelle confezioni. Deci­demmo allora di farci regalare qualche centinaio di scatole da una catena di scarpe e accessori vicino a casa e in tre lavorammo giorno e notte per suddividere e poi inviare le carte al produttore perché le mettesse nelle confezioni del nostro neonato Pictionary».

È arrivato il momento di farmi autografare la mia scatola di Pictionary, prodotta ora da Mattel. Questa versione è diversa dalla originale?
«Sì, hanno inserito le carte solo per bambini ed è stata una grande idea. Poi hanno sostituito la carta e penna con lavagnette e pennarelli. Que­sto invece non mi piace. Adoro la versione con foglietto e matitina, come è nata nel mio appartamento».

Cosa prova quando ci gioca?
«È come andare ad un concerto rock, coinvolge tutti i sensi. Alla fine non sai bene che cosa hai sentito, detto, ascoltato, non ricordi i dettagli ma pensi: “Wow! That’s great!”».

Un cameriere si avvicina a Robert: «Ma è vero che lei è l’inventore di Pictionary? Ci ho passato le nottate all’università, che emozione, posso fare una foto con lei?». Robert si alza sorridendo, come altre mille volte e di nuovo lo rende felice. Il ragazzo guarda un disegno su una tovaglietta fatto da Robert. «Posso prenderlo? Mi fa un autografo? Poi lo inquadro».

BaNNER
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