Jean-Pierre Vigna è un professore universitario francese in pensione, con un cognome che racconta le origini piemontesi di cui è orgoglioso. Nato da madre monregalese e papà originario dell’Alta Langa, vive da sempre in Francia dove il padre, come un gran numero di compaesani, decise negli anni ’30 di trasferirsi per tentare la fortuna difficile da trovare nelle colline di Murazzano. Così la famiglia si stabilì definitivamente Oltralpe, senza però mai dimenticare le origini contadine piemontesi.

Ci racconta questa avventura?
«Mio padre nacque nel 1911, negli anni ’30 emigrò a Monaco per lavorare da uno zio che gestiva un albergo. In que- gli anni in città c’erano tre Francesco che venivano dallo stesso paese, Igliano, a pochi chilometri da Murazzano e per distinguerli li chiamavano Ce- sco, Cecu e Cichinotu. Si trova- vano spesso la sera a casa di uno o dell’altro per due chiac- chiere e un bicchiere di vino, in Alta Langa e da allora, ogni anno, torno a passare lì qualche mese d’estate. Per due anni ci sono rimasto da aprile fino a novembre: leggevo, andavo al mercato, al cinema di Dogliani. Sono stato bene, forse però l’in- verno sarebbe stato duro».

Lei è una sorta di memoria storica che anno dopo anno registra l’evoluzione di quell’angolo di Langa poco turistica. Cos’è cambiato negli anni?
«Due cose mi colpiscono sem- pre: il paese si è spopolato e le persone sono invecchiate. I contadini di un tempo ora son pensionati e chi nel frattempo ha piantato le grandi distese di noccioli viene da Alba e torna su solo per occuparsi delle pian- te o per la raccolta, non ha più niente a che fare con i piccoli così si ricreava una piccola Igliano in Costa Azzurra».

Quali sono i suoi primi ricordi langaroli?
«Da piccolo passavo tutte le estati dalla mia nonna materna, nel monregalese, e lì imparai a parlare dialetto prima e meglio dell’italiano. Poi quando io ero già al liceo i miei riuscirono a ristrutturare la casa di famiglia agricoltori di un tempo.
I pochi giovani che vivono qua non lavorano in paese ma altrove».

Da Parigi ogni anno a Igliano. A parte l’affetto e i ricordi, cosa porta qui lei e la sua famiglia?
«Io e i miei figli veniamo a goderci la bellezza del posto. Le vacanze nelle Langhe per me sono innanzitutto poter ammirare ogni giorno la cornice delle Alpi. Quando vado a Murazzano per un caffè al bar o per la spesa mi fermo ad ammirare il profilo del Monviso e mi rendo conto che è un magnifico pano- rama. Quando ero piccolo veni
vo solo per il paese e per la pace che sentivo, ora invece amo esplorare altre colline. Mio padre è partito giovane e non mi ha mai detto che ci fossero così tante cose da vedere. Lui era stato sempre al paese».

Cosa ricorda di suo padre?
«Era un vero contadino, in questo la città non lo aveva cambiato. Aveva trovato il mo- do di farsi il suo vino anche sulla costa francese. Quando lavorava nei giardini di Monaco, di sera, andava assieme a un suo amico che vendeva il vino e lo aiutava a pulire le bottiglie in cantina. Mi portava a comprare le uve in un paesi- no dietro a Saint-Tropez e poi vinificavamo nella cantina di casa nostra; i primi anni si pressava l’uva alla vecchia ma- niera, con i piedi, e poi aveva- mo comprato un piccolo tor- chio. Ricordo che tutto il cor- tile profumava del vino che stava fermentando e a me pia- ceva tanto quell’odore di uva nell’aria. Era una vera cantina contadina in città».

Cosa sente quando si trova in Alta Langa?
«Le mie radici. Mi sento proprio come uno del paese, anche se non ci ho mai vissuto. Amo guardare i vecchi muri, le case in pietra, i muretti a secco che sostengono le terrazze dove un tempo c’erano le vigne. Guardo il paesaggio modificato con pazienza, nel tempo, dalla gente che nei secoli ha vissuto lì e mi piace l’idea che anche io sono di quel paese. E che mio padre lo fosse. Amo le lunghe chiacchierate con le persone del posto, parlando piemontese la connessione nelle Langhe è immediata. Quando vai al mer- cato e chiedi in dialetto “Vere cu fa?” (quanto fa?), ad esem- pio, le persone dietro al banco ti rispondono in modo diverso rispetto a chi parla italiano. Sarà che ho imparato il piemontese da piccolo ma quando lo parlo mi sento a casa».

Riuscirebbe a viverci sempre?
«Tutto l’anno non saprei, da aprile a novembre senza pro- blemi. L’ho già fatto e passavo le giornate passeggiando nei bo- schi, facendo la legna, andando al cinema a Dogliani e leggendo i giornali. Ma l’inverno può es- sere duro e ormai ho una certa età, sono da anni in pensione».

Qual era il suo lavoro?
«Insegnavo didattica della lin- gua francese all’Università ai futuri insegnanti di grammatica e letteratura».

Che cosa serve per essere un buon insegnante?
«Ohlalà, che domanda! Rias- sumerei con un “aver voglia, saper fare e pensare al bene degli studenti”. Bisogna credere che il proprio mestiere possa essere utile agli altri, conoscere alla perfezione quello che si insegna e infine valutare gli usi pratici della propria materia, ad esempio la letteratura serve anche per imparare a parlare meglio e ad ascoltare con più attenzione».

Ama leggere autori o ascolta- re musicisti italiani?
«Leggo volentieri Fenoglio, Pavese e Maria Tarditi. Il can- tautore più presente nella mia mente quando penso all’Italia è sicuramente Gianmaria Testa. La prima volta che ho ascoltato la sua canzone “La ca sla culi- na” è stato un colpo al cuore, a parlarne mi emoziono sempre.
È quella che dice “È bianca la casa sulla collina, bianca come un lenzuolo, se la guardi sem- bra che rida, è proprio la casa che voglio.” La descrizione per- fetta della mia casa nelle Langhe, con “tante stanze con finestre e balconi”».

Le parole piemontesi preferite?

«“Amis” e “pais”, ovviamente».