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L’opinione di Umberto Galimberti

«Cosa abbiamo fatto noi per aiutarli? La civiltà comincia sempre con un “veniamoci incontro”. Troviamo un terreno comune, ribadire la nostra identità non rappresenta la soluzione»

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IL FATTO
Il fenomeno baby gang è dilagante e i fatti di piazza duomo a milano hanno fatto suonare l’allarme: a che punto è L’integrazione degli immigrati nel nostro paese?

Da un po’ di tempo è in primo piano, con sempre maggiore evidenza, la questione generalmente irrisolta dell’integrazione sociale. Alcuni segnali arrivati dalla cronaca a cavallo tra dicembre e gennaio sono sembrati particolarmente allarmanti: a Torino (e a ruota anche in tutta Italia) il fenomeno delle baby gang, ovvero dei gruppi di adolescenti che partendo dalla periferia si spostano in centro per attaccare e derubare coetanei o ragazzi più grandi, è diventato dilagante. A Milano, ci sono stati i fatti di cronaca sfociati nelle molestie e negli stupri di gruppo la sera di Capodanno in piazza Duomo. In comune, tra gli episodi citati, c’è l’identica matrice di giovani che abitano appunto in zone di emarginazione e disagio e il fatto che gli stessi siano figli di immigrati principalmente nordafricani, magari italiani di seconda generazione, comunque con una condivisa provenienza straniera, culturale e religiosa.
Ecco che cosa ha scritto, a questo proposito, il filosofo e psicanalista Umberto Galimberti sulle pagine del Venerdì di Repubblica, rispondendo a un lettore che decretava il fallimento delle politiche di integrazione, sull’esempio dei casi delle violenze portate dai “branchi” e che in questo modo mettono in crisi il modello stesso di città aperte come Milano: «Quando ci riferiamo ai figli di seconda generazione, come sembra che siano quelli che hanno provocato quell’orrendo episodio in piazza Duomo, cosa abbiamo fatto noi per integrarli? Cosa hanno fatto le agenzie integrative come le parrocchie, le cooperative, le associazioni sportive, i centri culturali o ricreativi, ma soprattutto la scuola? Si sono interessati a loro, si sono presi cura di loro, oppure no? Sembra infatti che quando ci rapportiamo allo straniero noi non ci mettiamo mai in questione, non sottoponiamo ad esame le nostre leggi, non discutiamo i nostri valori, semplicemente ribadiamo la nostra identità che lo straniero, con la sua estraneità, concorre a rafforzare».
Questo è il punto. Mai come in questo caso ci si deve calare nella dimensione di quei soggetti improvvisamente finiti al centro delle cronache e che, così, ci hanno fatto capire che qualcosa non funziona. E allora Galimberti approfondisce ulteriormente il concetto per spiegare il suo punto di vista: «La civiltà non incomincia con un “vienimi incontro” ma con un “veniamoci incontro”, facciamo un po’ di passi l’uno verso l’altro, stabilendo in tal modo un terreno d’intesa, anche minimo, però comune. Questo cammino che dovremmo fare noi verso di loro dovrebbe incominciare nei centri di accoglienza che spesso sembrano carceri. E quando incontriamo i figli degli immigrati, prestiamo loro una maggiore cura e attenzione nelle nostre scuole, riconosciamo a loro la cittadinanza, perché se li escludiamo dalla “città” non possiamo pensare che poi si comportino secondo gli usi e i costumi della nostra città».

BaNNER
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