«L’immaginazione è la chiave di tutto»

“La bambina sputafuoco” è l’atteso esordio come narratrice di Giulia Binando Melis

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Non capita tutti i giorni di intervistare una scrittrice esordiente che pub­­­­­bica subito con una grande casa editrice come Gar­zan­ti, avendo la certezza che il proprio romanzo varcherà i confini nazionali, visto che altri Paesi si sono già assicurati il diritto alla pubblicazione della versione tradotta nella propria lingua. La 27enne torinese (anche se in questa fase è “cittadina del mondo”, visto che cambia spes­so casa e talvolta paese grazie ai portali di affitti a brevissimo termine) Giulia Binando Melis è partita dalla propria esperienza personale per scrivere “La bambina sputafuoco”, un li­bro che insegna il potere dell’immaginazione, la forza dell’amicizia e dei legami famigliari, il coraggio di vedere il lato positivo delle cose, senza piangersi addosso, evitando anche entusiasmi fuori luogo.

Pubblicazione del primo romanzo con Garzanti e, mesi prima dell’uscita in Italia, diritti già venduti in sei lingue. Che effetto fa un esordio del genere?
«Fortunatamente non sono incline all’agitazione! Ormai il libro è stato scritto, ora prenderà la sua strada, ma non voglio già coprirlo di ansie. Vedremo cosa succederà. Per me è un momento molto importante, che attendo da tanto tempo, ma so che tutto quel che potevo fare finora l’ho fatto e che quel che dovrò fare d’ora in poi lo farò».

Come è riuscita a gestire una materia autobiografica così delicata?

«Quando scrivi di esperienze personali hai sempre la tentazione di metterci dentro delle cose che sembrano legittime perché le hai vissute, ma la narrazione non funziona così: quel che sta nella narrazione è principalmente in­ventato perché spesso le cose vere sono talmente assurde che non puoi inserirle in un racconto, altrimenti il lettore non ci crederebbe. Penso proprio che questo resterà l’unico libro su questa esperienza, che chiaramente si è infiltrata e continua a infiltrarsi nella mia vita, anche di adulta. Quel che mi ha aiutata è stato di certo il tempo. A prescindere dall’età che avevo allora non avrei mai potuto scrivere questo romanzo un anno dopo le vicende narrate. Si è dovuto depositare tutto in modo da poterlo vedere lucidamente. Non è un libro terapeutico, scritto per superare un’esperienza; forse possiamo definirlo “post terapeutico”, nel senso che è passato del tempo, ho fatto un lavoro su me stessa, non da sola ovviamente, e sono arrivata a maneggiare questo materiale senza bruciarmi le dita. È stato un lavoro di raffreddamento».

Forse potrebbe servire a chi legge…

«Me lo auguro. è una delle cose che spero pensando alla pubblicazione di questo libro».

Molti i temi del romanzo: la forza dell’immaginazione, delle parole, dell’amicizia, della famiglia. Se dovesse sceglierne uno?

«Certamente l’immaginazione, per me la chiave che schiude tutti i significati che sono nel libro. È vero che par­la di tante altre cose e che è anche un romanzo di formazione, ma non reggerebbe senza il potere immaginifico».

Raccontare di bambini malati richiede un garbo particolare, non fosse altro per non scadere nel lacrimoso o nel rischio del “santino”. In­vece Mina non è una bambina perfetta, anche lei ha i suoi difetti, le sue piccole cattiverie…
«Soprattutto quando si parla di bambini si corre il rischio di ridurre la complessità, ma tutti siamo fatti di tante parti, dunque tutte vanno raccontate; anzi, nei bambini forse vengono fuori ancora più nettamente, data la loro assenza di “filtri”. È un aspetto al quale ho cercato di essere molto attenta fin dall’inizio, ma mi ha aiutata anche il fatto che il testo sia passato da molte mani, abbia subito molti sguardi».

La storia di Mina, così come la sua, è anche la storia di u­na famiglia. I suoi famigliari co­­me hanno accolto il romanzo?
«Hanno avuto tutti un ruolo fondamentale negli anni della malattia e quindi quando è ar­ri­vato questo libro ha fatto effetto a tutti, anche se sapevano che l’avrei scritto e hanno letto alcuni brani durante la stesura. Per loro è stato un po’ come rivivere quel periodo an­che se spesso mi hanno contestato che quel tal personaggio fosse diverso da quello reale, quella tal cosa non fosse stata detta così o non fosse accaduta. Ha richiesto loro un po’ di tempo capire che questo non è il mio diario, che c’è una di­stanza narrativa tra i loro ricordi e quel che leggono sulla pagina».

Qual è il suo rapporto da scrittrice con i luoghi?

«È un rapporto inevitabile per tutti, perché tutti veniamo contaminati dai luoghi che abitiamo, a volte senza accorgercene. Io, per esempio, per tanti anni ho rifuggito il paesino di campagna in cui sono nata e cresciuta, ma ora mi rendo conto che, forse anche grazie a questo libro, mi ci sono riavvicinata, ho iniziato a rifrequentarlo. C’è stato come un rimbalzo d’affetto. Al momento però, non ho una casa stabile: dato che mi piace viaggiare e ho la fortuna di poter lavorare più o meno da qualsiasi posto, da quasi un anno sto cambiando spesso città, usando solo Airbnb. Ora sono rientrata in Italia dopo aver fatto negli ultimi mesi un po’ di giri tra Lisbona, Madrid e Lanzarote per l’uscita del libro e sto a Milano, prima sono stata a Torino, poi andrò a Roma e poi, credo, a Napoli».

Come ci si approccia a una prima opera: ci si gioca tutto o si pensa a tenere in serbo qual­che storia, qualche im­ma­gine?
«Personalmente non ho voluto risparmiare niente: se do­vessi tenere da parte immagini o storie per i romanzi futuri dovrei cambiare mestiere!».

A proposito di mestiere, come si definisce in questo mo­men­to? Se le chiedono cosa fa nel­la vita risponde “scrittrice”?
«In realtà non riesco ancora a dirlo. Anche se, guardando alla mia quotidianità, la scrittura è certamente l’elemento centrale. Scrivo anche per altre persone, per progetti editoriali, e poi canto da anni; la musica è un mio grande amore e sto studiando la tastiera perché vorrei portare questa mia passione a un altro livello. Siamo agli esordi anche in questo campo…».

Si potrà dire soddisfatta di questo libro se…

«Mi permetterà di scriverne altri».