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«Cultura e natura concorrono a creare l’identità di genere»

Vladimir luxuria si conferma un riferimento circa le tematiche transgender e sul ddl zan...

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E poi arrivano i Giganti ad attentare alla bellezza. Chie­do a Vladimir Lu­xuria se il rumore forte di rombi e motori che si sente alla fine dello spettacolo possa anche essere inteso così e lei approva. Lo spettacolo è Discarica, riproposto al Teatro Off Off di Roma a dieci anni di distanza dal debutto al festival di Todi, su testo e regia di Silvano Spada, che la vede coprotagonista insieme a Roberto Alpi, Elena Croce e i tre under 35 Blu Yoshimi, Filippo Contri, Andrea Verticchio.
I Giganti sovvenutimi sono quelli che ci ha regalato Luigi Pirandello, esseri bruti e brutali che scendono dalla montagna e uccidono Ilse, ovvero la poesia, la bellezza, la salvezza che si intravede sull’orlo del baratro. Qui sono una banda di vandali dei giorni nostri la cui presenza è avvertita dal rombo delle moto. Ma la bellezza non c’è. C’è solo il degrado di una discarica dove anime derelitte si inventano la sopravvivenza. Immaginando la bellezza attraverso il riuso di vecchi oggetti abbandonati e i colori sgargianti di una ghirlanda o un boa di piume, o cantando Gavin Friday con malinconia rassegnata. Ecco, è su di loro che si accaniscono i nuovi giganti. Perché ormai si infierisce su quel poco che c’è. Si distruggono con piacere i castelli di carta, si minano le fondamenta costruite su sabbia, si vuole far saltare in aria pure la Madonnina di Montevergine appesa alla lamiera di una baracca, protettrice dei trans e di tutti i diversi. Già, ma diversi da chi?

In questa discarica convivono avanzi di una società malata, di certo più ma­lata di ogni singolo avanzo. Una condizione terribilmente attuale.
«Infatti. C’è un ex manager d’azienda demansionato e poi licenziato che compie una scelta di vita estrema, un ragazzo annoiato che si rifiuta di condividere i sentimenti, una contessina che attraversa la scena in silenzio finché non recita il monologo sulla guerra di Gabriele d’Annunzio».

Il suo personaggio, quello di una trans che ha imparato a pregare e non è priva di sana ironia, è autobiografico?

«Ci sono parti in cui racconto di me e della mia vita ma io sono molto più fortunata di Fanny».

Ha contribuito alla drammaturgia?

«Ho aggiunto qua e là piccole battute»

Quella del testosterone residuo è sua?
«Sì».

È davvero un dettaglio essere un lui o una lei, come si dice a un certo punto?
«Io credo esista il maschile e il femminile, ma tra le due dimensioni c’è un continuum di modi differenti, che variano come varia l’uomo, l’umanità. La non omologazione per me non cancella il maschile e il femminile e coloro che si dichiarano “gender fluid” hanno la libertà di sentirsi uomini e donne. Il limite è confinare il transgender nella sfera esclusivamente sessuale, invece di restituire alle persone la loro dimensione sentimentale e affettiva».

Lei ha scelto di non completare il percorso di transizione: è per questo che ha mantenuto un nome maschile?
«No, è perché mi piace il suono e il significato di Vladimir: potenza della pace».

Eh sì, la pace. Nello spettacolo ci sono momenti anche molto duri che alludono a cattiverie e pregiudizi. “La solitudine di un trans è crudele”, si dice. Quanto sarebbe auspicabile un’educazione sentimentale a partire dalla scuola?
«Magari si facesse! Invece capita ancora che un trans si trovi le porte chiuse al mondo del lavoro».

E magari ha due lauree. Parliamo della sua: letteratura inglese con una tesi su Joseph Conrad.
«In particolare su “Youth”, un racconto breve che ricorda “Il vecchio e il mare” ma mentre in Hemingway la sfida è con l’età, qui è legata al mezzo (un’imbarcazione che si riduce a un pezzo di sughero in mezzo alla tempesta). In comune c’è la sfida tra uomo e natura».

Una sfida sempre e di nuovo riproposta anche a proposito dell’identità di genere.

«L’uomo è un insieme di natura e cultura, non ha senso tacciare qualcuno di essere contro natura riferendosi all’i­dentità di genere. La cultura concorre all’identità di un individuo come la natura. L’identità di genere è il prodotto dell’una e dell’altra».

Che rapporto ha con lo specchio?

«Prima era conflittuale, non per una questione estetica ma identitaria. Poi quando ho avviato il percorso di trasformazione mi sono guardata e mi sono detta “ecco dov’eri andata a finire”. Oggi ho un rapporto armonioso, vedo la profondità dei miei occhi e sono serena».

È attenta alla forma fisica? Che rapporto ha con il cibo e la cucina?
«Alla cucina mi dedico il necessario: non prendo l’uomo per la gola, però non sono nemmeno quella che a una cena con amici ordina una foglia di lattuga. Mangio e bevo, quando è il caso, ma mi piace non solo rientrare a casa ma anche nei vestiti».

I vestiti. Qual è il suo stilista preferito?
«Gai Mattiolo è colui che mi veste in questo periodo. Mi piace il suo abbigliamento che alterna capi più impegnativi con abiti casual. E amo le sue fantasie, i colori mai cupi».

Il viaggio del cuore?
«In Perù. Che ha anche prodotto un diario di viaggio pubblicato nel 2018 da Piemme, “Perù, aiutami tu”».

Appunto. Nella quarta di copertina leggo di un viaggio tutta da sola “per dimenticare i miei conti in sospeso: l’età che avanza, l’amore che latita, il contratto di lavoro da rinnovare”, ma anche di un viaggio per raccontare “le contraddizioni di un Sud America che si vuole moderno, ma che ancora patisce la prepotenza di antichi popoli invasori con la presunzione di una superiorità culturale che si è arrogata il diritto di distruggere usi e costumi considerati selvaggi e demoniaci, in realtà tutti da scoprire, perché ricchi di profondità e saggezza spirituale”. Mi ritornano in mente i Giganti e vorrei fare un salto pindarico che ci riporta in Italia, pochi giorni fa, quando nuovi gi­ganti che ci governano hanno votato la tagliola e il ddl Zan è stato affossato.
«E ora piangiamo sul latte versato. Sono delusa, arrabbiata. La legge prevedeva l’inasprimento delle pene contro i crimini e le discriminazioni contro omosessuali, transessuali, donne e disabili, così come esiste l’aggravante per l’odio razziale. Ma non finisce qui, la lotta continua, è arrivato il tempo di ricucire un rapporto all’interno della comunità e di pensare al futuro. L’esigenza c’è, è evidente anche se non è stata tradotta in legge. L’o­mofobia esiste e quella di Palazzo è complice dell’omofobia di strada».

Articolo a cura di Alessandra Bernocco

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