«Come noi del ’68 campioni d’Europa contro i pronostici»

Sandro Mazzola e gli azzurri dell’altro trionfo: «Nessuno credeva nell’Italia, fu la spinta giusta»

0
157

La chiusura di un cerchio aperto di­ciotto mesi fa, con il drammatico ap­prodo del nostro Con­tinente nell’era Covid, la conta dei morti, le chiusure forzate. L’11 luglio 2021 l’Italia si è laureata campione d’Europa di calcio, ottenendo un risultato che è stato anche e soprattutto una grande occasione di festa e di liberazione per un Paese segnato dalla pandemia e dalle difficoltà da essa prodotte, sia a livello sociale che economico. L’Ita­lia è campione d’Europa e lo è diventata con pieno merito, dimostrando sul campo di essere la più forte. Prima la vittoria quasi perfetta del girone, con sette gol fatti e zero subiti contro Turchia, Svizzera e Galles, quindi il superamento della matricola temibile Austria, arcigna e mai doma. Infine, il triplo capolavoro, contro tre candidate per il successo continentale: il Belgio, numero uno del ranking mondiale secondo la Fifa; la Spagna del possesso palla e di quel gran signore che ha dimostrato di essere Luis Enrique; l’In­ghilterra, in ultimo, trascinata dai 60mila di Wembley, in una partita che sembrava già destinata a segnare il ritorno nell’olimpo dei grandi del calcio britannico. Invece, alla fine, il calcio non è tornato a casa, parafrasando l’ormai proverbiale “It’s coming home”, sfacciatamente cantato a tutta Europa dai sudditi della Regina (suggeriamo: a volte scaramanzia e basso profilo fanno la differenza), ma è tornato a Roma.
Roma che non vedeva un trionfo continentale dal 1968, quando l’Italia di Fer­ruccio Valcareggi sconfisse proprio nella capitale la Jugoslavia (2-0 il punteggio finale), centrando la vittoria alla terza edizione di un trofeo poi mai più conquistato. Oggi, che a festeggiare sono Chiellini e compagni, i parallelismi con quel successo si sono sprecati. Abbiamo provato a farci raccontare quali emozioni ha provato, dopo il rigore parato da Don­na­rumma al giovane Saka, proprio uno degli eroi del ’68: Sandro Mazzola. Con la bandiera dell’Inter, oggi settantottenne, abbiamo ripercorso il cammino azzurro, tra punti salienti e momenti decisivi.

Mazzola, si è emozionato per questa Nazionale?
«Come puoi non emozionarti per dei ragazzi così. L’Italia ha fatto un cammino eccezionale in questo Europeo e il trionfo di Wembley è stata la ciliegina su una torta curata e lavorata alla perfezione da tutti».

Lei ci credeva?
«Arrivati alla finale, a quel punto, sì. Sapevamo un po’ tutti che l’Italia era forte e che avrebbe potuto giocarsela per vincere, anche se di fronte c’era una nazionale galvanizzata dalla presenza del pubblico di casa. Devo dire che i nostri ragazzi sono stati perfetti, anche perché, e io l’ho provato sulla mia pelle: quando entri in cam­po a Wembley il fiato ti diventa improvvisamente più corto…».

A suo modo di vedere, che cosa è stato decisivo per la vittoria finale?
«Gli elementi sono stati tanti, ma credo che in generale abbia fatto la differenza la volontà del gruppo. Guar­dando le partite, vedevo in campo ragazzi vogliosi di fare qualcosa di grande, bra­vi a combinare questo atteggiamento mentale a delle doti tecniche di assoluto valore. In tutto questo, era evidente la mano di un grande allenatore come Roberto Mancini».

Quanto ha inciso il lavoro del tecnico jesino?
«In un’immaginaria scala da uno a dieci, direi nove. Quando accettò l’incarico, ave­va davanti a sé un percorso in salita, segnato dalla clamorosa non partecipazione ai Mondiali del 2018. Con pazienza e umiltà, però, ha costruito una squadra perfetta, nella quale è stato il gruppo a fare la differenza».

E i “senatori”?
«Sicuramente gente come Chiellini e Bonucci ha avuto un peso specifico notevole. Io credo, però, che la loro rilevanza si sia vista soprattutto durante la settimana, negli allenamenti. Quando ti prepari al fianco di grandi campioni, è il loro esempio nel lavoro quotidiano a spingerti a dare sempre di più».

Lei è un reduce del trionfo europeo del 1968, finalmente non più unico nella storia italiana. Esistono delle analogie con quella squadra?
«Difficile dirlo, perché il calcio è cambiato molto. Di cer­to, però, quel gruppo partì, esattamente come quello di Mancini, senza avere i favori del pronostico. Nessuno pensava realmente che saremmo riusciti a fare qualcosa di buono e fu proprio quella mancanza di convinzione dell’ambiente che ci circondava a darci la spinta decisiva».

Quindici anni fa, invece, lei era sugli spalti a Berlino, come commentatore tecnico per la Rai al fianco di Marco Civoli, quando l’Italia di Lippi vinse il Mondiale del 2006. Troppo distante quella Na­zionale da quella di oggi?
«Forse sì, perché erano altri giocatori, con carriere differenti alle spalle. Questo gruppo, però, credo abbia la stessa qualità tecnica di allora e questo non può che farci ben sperare».

Insomma, come accaduto nel ’68, questa Nazionale po­trebbe aprire un ciclo?
«È presto per dirlo, ma voglio essere fiducioso. Vedo entusiasmo, volontà e doti tecniche. Se il gruppo saprà mantenere questi ingredienti anche nei prossimi anni, potremo assistere a qualcosa di importante».

Tra tutti i giocatori vede un nuovo Mazzola?
«Impossibile trovarlo, perché il calcio di oggi è davvero diverso. All’epoca, eravamo tutti giocatori che si erano “fatti da soli”, lavorando duramente nei settori giovanili per poi emergere. Oggi i ragazzi vivono percorsi di­versi, ma sicuramente questa Italia è fatta di atleti e professionisti con la testa sulle spalle».

Un’ultima battuta. Che effetto le ha fatto vedere le piazze stracolme?
«È stato bellissimo, soprattutto se pensiamo a tutto ciò che abbiamo vissuto in questi due anni. In particolare, le prime immagini di festa, quando ancora non sembrava vero, sono state davvero toccanti anche per chi, come noi, ha già vissuto trionfi im­portanti in passato».