«Il nostro segreto? Portare sul palco valori, amore e vita»

Protagonisti da oltre mezzo secolo. Il leader dei Nomadi Giuseppe “Beppe” Carletti racconta l’emozione di guidare una delle band più longeve di sempre

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Un album che è “si­curamente il migliore degli ul­timi anni”, il ri­tor­no sul palco e la voglia di ricominciare a vivere l’adrenalina del concerto insieme al pubblico. C’è tutto questo nell’estate dei Nomadi, lo storico gruppo che, con i suoi quasi sessant’anni di vita (è nato nel 1963), è tra i più longevi al mondo. Tra le tante tappe estive della band romagnola, una farà scalo in provincia di Cuneo: il 17 luglio, a Tarantasca, sul palco di On­de Sonore Music Fe­stival. Ab­bia­mo parlato di questo e tanto altro con il tastierista Giu­seppe “Beppe” Carletti, che dei Nomadi è leader, nonché fondatore, insieme al compianto Augusto Daolio.

Dopo quasi due anni, si torna sul palco. Quali sensazioni si provano?

«Sono sempre bellissime, co­me se fosse la prima volta. Nel­la nostra carriera abbiamo fatto più di 5mila concerti, ma le emozioni non cambiano mai. Non è stata di certo una pandemia a frenare il nostro amore per la musica. Per quanto mi riguarda, il palco è la mia vita da 58 anni e non ho intenzione di smettere. Anzi, spero di poterci salire altre 5mila volte (ride, nda)».

Che cosa regala a livello umano ed emozionale il palco?

«Il calore e l’amore. In realtà è difficile definire bene che cosa si prova. Di certo, posso dire che i mesi in cui siamo rimasti lontani, per me sono stati un’eternità, anche perché non mi era mai accaduto in più di mezzo secolo. Come gruppo, abbiamo “bilanciato” questa lontananza, avvicinandoci ai nostri fan grazie alla tecnologia, ma le due cose non possono nemmeno essere paragonate per le emozioni che suscitano».

In compenso, questo anno e mezzo vi ha consentito di pubblicare “Solo esseri uma­ni”. Che album è?
«È di gran lunga il migliore degli ultimi anni dei Nomadi. Credo che sia un insieme di canzoni che racconta al meglio chi siamo. Ha tre sottotitoli, che sono “Valori, amore e vita”, ovvero le tre parole che riassumono l’essenza del nostro gruppo e dell’umanità intera. Diciamo che, nonostante la pandemia, non abbiamo perso tempo».

Che cosa significa essere umani nel 2021?

«Devo dire che io non sono dei più ottimisti rispetto alla nostra società. Stiamo vivendo un periodo storico nel quale diventa sempre più difficile trovare dell’umanità nel prossimo. Essere umani significa soprattutto riconoscere di essere “solo” umani, con i propri limiti e la propria necessità di imparare. Rispet­tare gli altri e le loro idee credo sia fondamentale. È un concetto che abbiamo ribadito nei decenni, ma che nella società di oggi vale ancora di più».

“Non chiudete la porta della coscienza, buttando le chiavi con indifferenza”. Un passo della vostra canzone sembra essere un monito…
«Durante la pandemia abbiamo sofferto tutti, anche se in modo diverso. C’è chi, purtroppo, ha pagato con la vita e chi ha pianto la morte dei propri cari. A lungo abbiamo ur­lato “saremo migliori!”, ma credo che, in realtà, l’essere stati rinchiusi ci abbia incattiviti e resi più egoisti. Ora è tempo di riscattarci, sia umanamente che professional­men­te. Noi, ad esempio, siamo stati i primi ad essere fermati dalle normative sanitarie e gli ultimi a ripartire, ma ora daremo tutti noi stessi sul palco!».

Tra le tracce dell’album compare anche “Il segno del fuoriclasse”, dedicato all’amico Augusto Daolio. L’elogio di un’amicizia indissolubile?
«Un’amicizia profonda, che nemmeno la morte ha potuto cancellare. Devo dire che per anni abbiamo scelto di non scrivere di lui, perché non volevamo in alcun modo essere accusati di opportunismo e di aver sfruttato la scomparsa di un amico per i nostri interessi. Ora, che di anni ne sono passati ahimè già 29, era giusto ricordarlo per quello che era ed è per noi: un amico vero, un punto di riferimento e un compagno di viaggio, anche ora che non c’è più».

Il 2021 è anche anno di vigilia, perché il prossimo anno “Io vagabondo” compirà mezzo secolo. Questo eterno nomade ha trovato casa?
«Un vagabondo non ha una casa e, anzi, ne ha tante perché in ogni casa trova la sua. Credo che poter celebrare una canzone che compie 50 anni sia qualcosa di unico e forse irripetibile nella storia della musica. Il merito penso risieda nel fatto che quel testo diceva tanto di noi e, soprattutto, di una generazione. Era il canto della libertà, in un’epoca, quella dei primi anni ’70, che viveva delle conquiste del ’68. Oggi il tempo è cambiato e proprio la libertà è stata messa a dura prova dalla pandemia, ma le conquiste da conseguire re­stano ancora tantissime».

Chiudiamo l’intervista con un “salto” in ambito sportivo: da noto tifoso juventino e appassionato di calcio, che voto dà alla Nazionale?
«Credo che abbia dato un segnale importante al Paese, aiutandolo a evadere con la mente in un momento non facile, proprio per via delle chiusure imposte dall’emergenza sanitaria. Si divertono e fanno divertire: è l’aspetto più significativo. Ci tengo anche a ricordare Giampiero Boni­per­ti, scomparso pochi giorni fa: devo a lui e al suo modo signorile di vivere lo sport la mia passione per la Juventus. La sua figura resterà per sempre legata ai bei tempi della mia gioventù».