«Dallo spazio la terra brilla ancora di più»

Il brivido di essere lanciati in orbita raccontato da Franco Malerba, il primo astronauta italiano: «Quando si decolla non si può avere paura»

0
157

Da quel giorno di circa 300.000 an­ni fa in cui l’“Ho­­mo sapiens” comparve sulla Terra sono stati poco più di 500 gli esseri uma­ni ad aver avuto le qualità e il coraggio per farsi lanciare in quel­lo spazio che, tra astronavi, viaggiatori stellari e prodigi della tecnica, ha così tanto alimentato la fantasia collettiva nel corso dei secoli. Franco Ma­lerba è uno dei 500: ligure, na­to a Busalla quasi 75 anni fa, nell’estate del 1992 è diventato il primo italiano a finire… in orbita nell’ambito della missione “Sts-46”, aprendo la strada a una generazione di cosmonauti e dando un nuovo input allo sviluppo della tecnica aerospaziale nel nostro Paese. Non so­lo: come tutti i primi della fila, Malerba ha dovuto indicare il sentiero e aprire, con tutte le difficoltà del caso, una porta che fino a quel momento, in Italia, sembrava sbarrata.

Malerba, la domanda più ov­via: come è diventato astronauta?
«Ne­gli anni ’70 e ’80, in Italia, nonostante l’allunaggio avesse destato grande impressione, il per­corso per diventare astro­nau­­ta sembrava impraticabile. Ave­­vo all’attivo una laurea in ingegneria e una in fisica, unite a un’esperienza di ricerca negli Usa, quando l’Euro­pean Space Agency (Esa) indisse un bando per la ricerca di astronauti. Era il 1978 e, quasi per gioco, mi candidai, scoprendo di avere i “numeri” giusti; ma in quegli anni, così complessi dal punto di vista socio-politico, mancava il supporto governativo e alla fine venne scelto il candidato tedesco. Non mi scoraggiai; anzi, rimasi competitivo e, nel 1989, quando si ripresentò la possibilità, riuscii a ottenere il “biglietto” per quella grande avventura».

Cosa pensa un uomo quando realizza che andrà nello spazio e che, per giunta, sarà il primo del suo Paese a farlo?

«Non te ne rendi conto subito, sei immerso nei test e nella preparazione. Ricordo le procedure che dovemmo seguire e l’approccio, poi rivelatosi vincente, con cui affrontai l’esperienza: avevo acquisito quell’attitudine facendo ricerca…».

Ci sveli il segreto…

«La chiave è pensare sempre al fatto di avere una realtà sta­­bile a cui tornare, un po’ come quando si resetta un computer. In realtà, era un’idea semplice, ma venne apprezzata dalla commissione che doveva decidere chi mandare nello spazio».

Ha avuto paura che qualcosa potesse andare storto?
«Ci sono due tipi di paure: la prima, la più ovvia, è quella legata alla propria sopravvivenza. Ma questa, come immagino facciano i piloti di Formula 1 o di moto, viene scartata a priori: altrimenti significherebbe aver sba­gliato mestiere».

E l’altra?
«È più profonda e riguarda la capacità di essere performanti nei propri compiti e di saper ge­stire la Legge di Murphy, ovvero la possibilità che qualcosa possa andare storto. A ciò si ag­giunge l’assenza di peso, una si­tuazione che risulta anomala an­che se ci si allena».

L’immagine più bella?
«Sicuramente non le stelle, anche perché la visibilità non era granché. Dello spazio ricordo soprattutto la Terra e le luci sulle coste delle città che disegnavano il profilo dei continenti. Il nostro, sembrerà banale, è davvero un bel pianeta».

Nel 1994 è stato eletto europarlamentare. Meglio fare il politico o l’astronauta?
«All’inizio avevo delle esitazioni. Il Parlamento Europeo, pe­rò, è un luogo dove, rispetto a ciò che avviene in Italia, si privilegia molto la competenza a scapito di legami e rapporti di conoscenza. In quel ruolo, ho avuto modo di lavorare al progetto di sviluppo della navigazione satellitare, che all’epoca era ancora un’esclusiva americana, riuscendo a unire le tante anime del Parlamento, divise tra i favorevoli e i critici, timorosi di uno sviluppo in senso militare dell’iniziativa. Dopo anni di impegno, oggi Galileo è funzionante».

Le prossime sfide… spaziali?
«Lo spazio si sta allargando, grazie a una rete sempre più robusta e a fondi più corposi che stanno giungendo dai privati, soprattutto negli Usa; dall’altra parte c’è la Cina, in cui il governo sta investendo som­me massicce per essere competitivo. L’Europa, dopo aver perso le sfide tecnologiche su computer e telefonia, non è particolarmente indietro e si dimostra presente, orientando la sua strategia a una collaborazione con gli americani: non siamo una retroguardia, ma la battaglia è dura e bisogna continuare a investire. Altra questione è invece il caso italiano: da noi storicamente manca il capitale di rischio e solo di recente si sono fatti passi avanti».

Di questo parlerà presto an­che al Fe­stival dello Spazio di Busalla, che ha contribuito a ideare. In generale, c’è sensibilità verso questi temi?
«Ci sono molte persone interessate ma a volte è difficile far passare l’idea che non sono questioni esclusivamente per addetti ai lavori. Piano piano stiamo riuscendo a superare questa barriera, cercando, nel caso del nostro festival, di utilizzare sempre un linguaggio chiaro e comprensibile».

I suoi progetti futuri?

«Oltre al Festival, ho collaborato con la Commissione Euro­pea co­me coach per le piccole aziende attive in ambito aerospaziale. Continuo a scrivere e poi c’è un terzo progetto: con l’or­chestra di Alessandria ab­biamo musicato alcuni miei scritti sulle tematiche spaziali. Mia mo­glie Marie Aude racconta la mia missione dall’altra prospettiva: recitare l’entusiasmo, gestire un bambino e la paura, ricevere la solidarietà della moglie del Co­man­dan­te mentre, sola nella sala di lancio, si gioca la partita della vita».