«Auguri, maestro! Con te in un viaggio che non avrà fine»

L’omaggio al cantautore siciliano Franco Battiato che, nel silenzio della malattia, ha compiuto 76 anni

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La settimana scorsa ha compiuto 76 anni, fe­steggiati con pochi fa­miliari, come accade da quando la malattia lo ha allontanato dal suo pubblico per avvolgerlo in quei mondi lontanissimi che hanno rappresentato l’essenza della sua storia. Franco Battiato, il “Mae­stro”, come lo chiamano con affetto i suoi fan, e non si è mai capito se davvero gli dia fastidio, come ha detto tante volte, questo appellativo ha cambiato la storia della musica con una forza dirompente, unica.

È stato il primo artista italiano a vendere più di un milione di dischi con “La voce del padrone”: uscito nell’ottobre del 1981, mantiene una freschezza straordinaria e alzi la mano chi non ha mai canticchiato “Cuccurucucù Paloma” o “Cerco un centro di gravità permanente”.

I suoi testi, all’apparenza così immediati, sono densi di riferimenti alti, per molti incomprensibili. Sono spesso citazioni o rimandi a Georges Ivanovic Gurdjieff, pensatore armeno del secolo scorso di cui Battiato è stato fervente ammiratore (oltre che discepolo di Henri Tomasson, allievo dello stesso Gurdjieff).
Ma la capacità del “cantautore siciliano”, come si definì con ironia nel primo disco “live”, “Giubbe rosse”, uscito nel 1989, è stata proprio quella di farci cantare quello che non capivamo, o capivamo soltanto in parte, grazie anche a suoni che davvero sembrano provenire da un “altrove” e a un “altrove” trasportarci.

La verità è che Battiato è sempre stato avanti, fin da quando si dedicava alla musica sperimentale con il “synth” Vcs3 acquistato a Londra. Era il secondo esemplare prodotto: il primo ce l’avevano i Pink Floyd, per dire.

Il pubblico ai concerti restava sgomento di fronte a suoni mai sentiti, in molti casi quasi ostili ma che di sicuro non si potevano ignorare. E poi i dischi influenzati dall’avere conosciuto Karlheinz Stockausen e avere compreso l’importanza della metrica e del solfeggio: sì, perché fino a quel momento Battiato aveva composto senza averli studiati.

Dopo essere diventato uno dei punti di riferimento della musica contemporanea, eccolo im­primere un’altra svolta inaspettata alla sua carriera con “L’era del cinghiale bianco”, il primo disco di pop esoterico con cui, spesso attraverso il citazionismo, creò realtà parallele che, come per magia, penetrano nell’animo di chi le ascolta, le interpreta, le fa proprie.

Il successo commerciale lo sconvolse: ritrovarsi i fan nella camera d’albergo, con la prezzolata compiacenza di un portiere, era qualcosa che mai avrebbe pensato gli potesse accadere. Non era nemmeno quello che avrebbe voluto, intendiamoci.

Pensate: nell’ultima antologia, pubblicata nel 2019 e per certi versi ritenuta quella definitiva, non c’è neppure una canzone tratta da “La voce del padrone”. I brani in cui si riconosce realmente sono altri: “Le sacre sinfonie del tempo”, “Lode all’inviolato”, “E ti vengo a cercare”, “Povera patria”, “L’animale” e, naturalmente, “La cura”.

Il comune denominatore è rappresentato dalla spiritualità, che nella sua essenza va ben oltre qualsiasi forma di religione. Battiato disprezza la classe politica che ci circonda e talvolta l’urgenza di esprimere le sue riflessioni si trasforma nell’invettiva (la citata “Povera patria” ma anche la più recente “Inneres auge”).

Ma gli anni di meditazione, di attenzione alla parte meno materiale dell’essere umano, lo inducono a rivolgere lo sguardo da un’altra parte, in quella ricerca introspettiva che lo spinge verso la cosiddetta mu-sica colta (“Genesi”, “Gilga­mesh”, “Messa arcaica”, “Il cavaliere dell’intelletto”, “Te­lesio”) e verso gli amati sufi, rappresentati in molti dipinti. Già, la pittura. Iniziò perché fino a quel momento non riusciva a disegnare neppure la forma più elementare e non poteva accettarlo. Così, con tenacia e gradualità, si è trasformato in Suphan Barzani: con questo pseudonimo ha firmato le sue tele, esposte in molte mostre.

La necessità di trovare sempre nuove vie di espressione l’ha condotto anche al cinema. E se in “Perdutoamor” ha raccontato la propria gioventù e i primi anni artistici, trascorsi a Mi-lano, dove si era trasferito dalla Sicilia proprio per seguire la propria inclinazione artistica, in “Musikanten” e “Niente è come sembra”, si è avventurato di nuovo su terreni molto più ispidi per il pubblico.
“Amata solitudine” cantava in un brano del 1996. Ma Battiato ha camminato anche con compagni di viaggio che sono stati importantissimi (da Giusto Pio, straordinario violinista, al filosofo nichilista Manlio Sga­lambro) e ha regalato alcune perle della sua straordinaria collezione ad altre interpreti: Alice, Milva, Giuni Russo, da lui scoperta.

“Au contraire”, nella trilogia di “Fleurs”, ha reso omaggio ad altri cantanti, italiani e stranieri, rivelandosi, pure in quest’ambito, un precursore.
È anche per questa ragione che il viaggio attorno al pianeta di Battiato non finisce mai di stupire: e sarà così per sempre perché per sempre lo andremo a cercare.

Articolo a cura di Giovanni Tosco