«Siamo in guerra, teniamone conto»

L’“uovo di Colombo” di Oscar Farinetti: «Più aziende producono il vaccino, meno tempo servirà per debellare il virus e ripartire»

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In questo momento di emergenza sanitaria che si protrae da ormai un anno anche il più ottimista tra gli imprenditori non può che essere abbattuto. Abbattuto, ma non per forza vinto, perché avere le mani legate non significa non poter pensare a una soluzione e farsi trovare pronto per la ripartenza. L’albese Oscar Farinetti, patron di Eataly e di Fontan­a­fredda, ora alle prese anche con la nuova creatura, Green Pea (il primo “green retail park” al mondo) è uno di quelli che rientra a pieno titolo nella categoria.

Farinetti, cosa fa un “uomo del fare” come lei in un periodo caratterizzato dal “non poter fare” come questo?
«Si arrabbia, come è normale che sia. Tutti gli imprenditori lo fanno, perché questa volta siamo impotenti. Quello che ci è piovuto addosso è qualcosa di esogeno, che non dipende da noi. Di fronte alle chiusure forzate che fai? Sei schiacciato da questo senso di impotenza. L’unica possibilità è vaccinare tutti e togliere le zone rosse, arancioni e gialle. Noi italiani siamo il popolo più affranto. Ci siamo ingrovigliati in una situazione di assistenzialismo totale. La politica non capisce che l’unica strada per un rilancio è passare attraverso l’impresa. Sembra quasi che si dia per assodato che le imprese italiane falliranno. Ap­paiono persino non preoccuparsi di questo e non capiscono che il lavoro passa attraverso l’impresa e non dai tavoli e dai “navigator”. Che poi questi “navigator” dovrebbero portare la gente a trovare lavoro, ma se non ci sono le imprese, dove li portano?».

Insomma, un periodaccio…
«In 45 anni e passa che lavoro non ho mai visto un momento così brutto. Quando sbagli tu, puoi almeno arrabbiarti con te stesso e lavorare per andare oltre gli errori commessi, mentre in questo caso non puoi farci niente. Siamo qui che non sappiamo di che colore saremo nelle prossime settimane».
Ritiene che questa situazione possa cambiare il modo di fare impresa in futuro?
«È lampante che nulla sarà più come prima; è chiaro che si registrerà una forte contrazione della voglia di intraprendere, anche perché nemmeno in questo contesto la burocrazia è migliorata. Ci vuole il tempo di sempre, è tutto farraginoso: siamo davvero un Paese complicato».

Cosa servirebbe?
«Che lo Stato si fidasse. Bi­sognerebbe utilizzare le autocertificazioni, per fare presto. Nel campo dei vaccini dovrebbero tirar fuori soluzioni meno schematiche. L’Italia è il primo Paese per la produzione di farmaci: abbiamo 50 fabbriche e 65.000 dipendenti. Bisogna prendere la licenza della Pfizer e consegnarla temporaneamente alle fabbriche di farmaci del mondo, affinché producano il vaccino. In tempo di guerra le industrie venivano trasformate. Invece adesso siamo ad aspettare che le 4 o 5 aziende che detengono il brevetto ne producano di più; ma facciamone produrre da altri! Pare che nessuno se ne accorga. Ci sono stati momenti in cui in politica si mandavano i migliori, adesso i migliori fanno altro».

Vede in giro Paesi più reattivi?
«Il Canada: ha reagito in maniera velocissima, trovando l’antidoto economico e dando soldi alle aziende. Eataly Canada, per esempio, è stato finanziato con dei ristori ed è ripartito. Ci sono Paesi veloci e Paesi lenti, come l’Italia. In più noi abbiamo messo anche una crisi di governo in mezzo…

Ma la colpa è del “suo amico” Matteo Renzi….
«Renzi ha tirato fuori dei contenuti corretti e argomentazioni perfette. Bisogna fare le robe che dice lui; il problema è nella maggioranza non lo ascoltavano e lui ha reagito come ha reagito, secondo me sbagliando, perché doveva tenere duro e modificare le cose dall’interno, In questo modo, invece, si prende tutte le colpe, anche perché ha buona parte dei media contro. Per cui riesce ad aver torto anche quando ha ragione».

Magari nel medio periodo si vedrà che aveva ragione…

«Bisogna vedere se fanno il governo, se cambiano marcia o cosa, perché andare a votare sarebbe una follia. L’unica soluzione è aspettare che finisca il Co­vid; per farlo occorre “ucciderlo” e quindi serve il vaccino. Quella è la priorità. Dopodiché si do­vrà programmare bene que­sto Re­covery Plan e poi scegliere un’ottima legge elettorale e andare a votare, perché con quella attuale saremmo di nuovo in ballo, senza capire chi vince e chi perde. Dobbiamo prendere il sistema elettorale usato per i Sindaci e utilizzarlo per le politiche: si va a votare, si fanno i “play-off” (i ballottaggi, ndr), uno vince e uno perde. E in più si danno anche le preferenze, cosa che adesso non è possibile».

Capitolo ristorazione. I ristori hanno ristorato?

«Noi come Eataly non abbiamo preso niente perché secondo il codice Ateco rientriamo nella categoria della distribuzione, benché quasi metà del fatturato provenga dalla ristorazione. I­noltre, siccome ci siamo “sbattuti” e abbiamo perso “solo” il 22 per cento, non siamo stati aiutati, perché si è dato sostegno a chi ha avuto flessioni peggiori. Il punto è che bisogna iniettare una marea di capitali nell’impresa. Utiliz­zare autocertificazioni (che poi verranno sottoposte alle dovute verifiche) per ricevere il 50 per cento della perdita di fatturato rispetto all’anno passato. Lo si fa indebitandosi, non è un problema. L’Europa stampa quattrini e parte dei soldi del Re­covery Fund li usiamo per quello. Se non rilanciamo l’impresa, tutto il resto non funziona».

Almeno all’inizio dell’emergenza il “delivery” è stato accolto con entusiasmo. Cosa ne pensa?
«L’emergenza ha insegnato un mestiere a chi non lo faceva prima. Noi già lo facevamo e abbiamo registrato incassi strepitosi grazie ai quali abbiamo contenuto le perdite di ricavi. Il tema è che bisogna entrare nell’ottica di idee che il prodotto portato a casa deve costare molto di più di quello che vai a prenderti tu, mentre la mentalità del mondo web è che quello che si compra online debba costare meno di quello che si acquista “onland”. Invece ci sono costi maggiori. Molti ristoratori dopo aver iniziato con il “delivery” si sono fatti due conti e hanno capito che ci perdevano».

Durante il “lockdown” ha scritto un paio di libri. Quanti in questi mesi di coprifuoco?
«“Serendidity”, che è frutto del “lockdown” di primavera ha venduto oltre 30mila copie in Italia e adesso è pronto a sbarcare in America e in Australia. Ne ho appena finito un altro, a cui, in realtà, stavo lavorando da due anni. Un libro che mi sembra bellissimo e si chiama “Never quit”. U­scirà in contemporanea an­che negli Stati Uniti, a maggio o in autunno. Sono 500 pagine in cui è raccontata la storia della mia vita sino ad oggi, scritta non da me, ma dalla scimmietta che da 66 anni sta sulla mia spalla e mi rompe le scatole: quella dei superlativi, quella che, finito un progetto, vuole subito buttarsi in un altro, quella che non mi fa mai stare quieto».

Chiudo con una piccola confessione. Da quando l’ho sentita usare “onland” invece di offline in contrapposizione a online (lo ha fatto anche poco fa, rispondendo alla domanda sul delivery, nda), ho iniziato a farlo anche io, senza però dire che è una sua invenzione…
«Ben fatto. È tutta la vita che copio: ogni giorno trovo qualcuno con più talento da cui attingere. Copiare è l’arte dei migliori».