1992 – “Mani pulite” sconvolge il Paese

I magistrati fanno emergere un articolato sistema di tangenti che ruota attorno a politici e personaggi di spicco

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«Sul piano dei sim­­boli, per me, Tangen­to­poli è stata una città virtuale, fatta di ma­laffare, lottizzazioni, raccomandazioni e voti di scambio, dove la ge­stione della politica era finalizzata agli interessi personali o di par­te, piuttosto che agli interessi generali».
È questa la definizione che An­to­­nio Di Pietro, tra i magistrati par­te dell’accusa, diede, nel 2000, a favore del fa­moso libro di Giovanni Va­len­tini “In­tervi­sta su Tan­gen­to­poli”, del più grande scandalo politico della storia dell’Italia unita, paragonabile solo a quello della Banca romana, esploso esattamente cento anni prima e con dinamiche e scenari corruttivi simili.
“Mani pulite”, così come è passato alla storia, si aprì il 17 febbraio 1992, quando proprio Di Pietro, nel ruolo di pubblico ministero, chiese e ottenne un ordine di cattura per Mario Chiesa, ingegnere milanese con importanti amicizie nel Partito socialista meneghino e presidente del Pio Albergo Tri­vul­zio. L’ingegnere, colto in flagrante mentre intascava una tangente da sette milioni di lire da Luca Magni, imprenditore monzese che aveva denunciato questo ennesimo tentativo di corruzione, fu arrestato e, dopo alcune settimane di silenzio, iniziò a parlare, facendo crollare il castello di sabbia che stava alle sue spalle.
Nel giro di pochi mesi, benché inizialmente oscurati per non influenzare le elezioni che stavano per svolgersi, finirono nei registri degli indagati tantissimi volti noti della politica italiana, accusati di corruzione e costante tentativo di accaparrarsi tangenti da utilizzare per interessi personali o per finanziare i partiti di cui facevano parte.
La crescita di fermati fu espo­nen­ziale: i primi arrestati furono politici locali, di cui Mario Chiesa, definito “Mariuolo isolato” dal leader del Psi Bettino Craxi, era l’esempio “perfetto”. Quindi fu la volta di deputati, personalità di spicco del mondo dell’imprenditoria, quin­di sottosegretari, segretari e, infine, i “pezzi grossi”.
La mattina del 29 aprile 1993, la Camera negò l’autorizzazione a procedere contro Bettino Craxi, pochi minuti dopo che lo stesso segretario socialista ave­va tenuto un celebre intervento nel quale accusava i suoi colleghi di falso perbenismo. Fu lo strappo definitivo tra l’opinione pubblica e i partiti tradizionali: le piazze italiane furono inondate da manifestazioni di protesta, che culminarono con il celebre lancio delle monetine contro Craxi, all’uscita dall’Hotel Raphael, a Roma.
Seguirono mesi e anni di indagini, accuse e colpi di scena: Craxi fuggì ad Hammamet, in Tunisia, e si diede alla latitanza fino alla morte; molti “big” della po­litica furono accusati ed arrestati; in parallelo, si creò una frattura tra il parlamento e la magistratura, riscontrabile ancora oggi.
Al termine delle inchieste, si con­tarono 1.300 tra condanne e patteggiamenti definitivi, di chi, di fatto, aveva ammesso la propria corruzione. Al di là dei numeri, però, quell’inchiesta aveva completamente stravolto il mondo politico: il quadripartito (Dc-Psdi-Psi-Pli) collassò sot­to i colpi della magistratura e lasciò spazio a una nuova stagione e a nuovi leader, come Umberto Bossi, anima della Lega Nord, e, soprattutto, di Silvio Berlusconi, che trionfò nelle elezioni politiche del 1994. Era nata la Seconda Repubblica.