«Meloni contro Schlein strategie ed errori e l’Italia si ferma»

Il vicedirettore di HuffPost: «Alle Europee prevedo un’astensione da record. Questi politici hanno reso le elezioni una competizione separata dalla realtà, un battibecco da talkshow. Nessuno parla del nuovo ordine mondiale. E la premier governa serenamente senza mai affrontare alcuna sfida concreta»

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Il contesto politico, alla vigilia delle scadenze elettorali, appare complesso e confuso come non mai. E allora, per capirci di più, abbiamo chiesto aiuto a un osservatore qualificato e attento come Alessandro De Angelis.

Centrodestra serenamente al governo e opposizione evanescente: è una descrizione realistica?

«La sensazione è che Giorgia Meloni sia più forte di due anni fa e penso le Europee lo confermeranno. Non perché governi bene, ma perché non è “sfidata”. In quasi due anni non c’è mai stato un fatto che l’abbia realmente messa in difficoltà, che abbia spostato gli equilibri, che l’abbia fatta sentire “mi­nacciata”. Si pen­si, per intenderci, a quando Berlusconi tornò indietro sull’articolo 18 dopo la manifestazione al Cir­co Massimo».

Alla Meloni non accade perché è brava?
«No, semplicemente perché non c’è alternativa. Lei non sta perseguendo un grande disegno. Si è limitata a mettere in campo una postura bi­fronte: all’estero tra collocazione atlantista e vincoli di bilancio europei è allineata, per usare un termine caro a Mario Dra­ghi, e menomale rispetto a quel che sosteneva prima. Al­lineamento, non il protagonismo che l’Italia po­trebbe esercitare, per vocazione e per posizione, nel Mediterraneo allargato».

E l’altra faccia è la politica interna, immagino?

«Esatto. L’allineamento po­treb­be suonare come un “tradimento” di alcuni capisaldi della politica pregressa, dall’Euro a Putin definito nel suo libro un “baluardo per la difesa della cristianità”. E allora per dimostrare al suo popolo che “noi siamo quelli che non tradiscono”, in Italia cavalca temi identitari: l’approccio securitario, sin dai rave party, la retorica della “caccia agli scafisti”, l’approccio regressivo su unioni civili e aborto. Insomma, in Europa è a mani vuote su immigrazione e patto di stabilità, in Italia si mette l’elmetto».

Può funzionare per sempre?

«Questa ossessione della coerenza è un limite, perché non conosce il concetto di un’evoluzione. Si chiama minoritarismo: rinuncia a parlare a tutto il Paese. Sulla politica estera è riuscita a emanciparsi, in politica interna no, perché più con­dizionata dalle sue tribù».

Per questo non si dice antifascista?

«La sua reticente dichiarazione sul 25 aprile, dove non nomina la parola antifascismo, è esattamente questo: un modo per rivendicare la sua estraneità al patto su cui si fonda la Repubblica. E in­fatti vuol cambiare la Co­sti­tuzione a spallate. L’opposto di Fini che, al mo­mento dell’approdo ai vertici delle istituzioni, si sentì in dovere di aderire a un sistema di valori condivisi».

Il “minoritarismo” è però un partito quasi del 30 per cento.

«Sì può essere minoritari an­che col 40, come approccio culturale. Lei propone la ri­vincita di una parte, non un disegno d’insieme. E infatti si è circondata di una classe dirigente dove è premiata la fedeltà più del merito. Dà l’illusione di una comfort zone, ma è un limite. Perché, nello schema del “one woman show”, tutto è caricato sulle sue spalle».

E se fosse una lucida strategia?
«La sua uni­ca strategia è non farsi scavalcare a de­stra da Salvini e Vannacci, per questo non dismette il suo racconto antisistema pur avendo aderito al sistema nei fondamentali. Compresi complottismo e sindrome dell’assedio. Ha notato che Meloni non sorride mai in un discorso pubblico? È sempre arrabbiata, è tutta una lotta, un nemico, mai una volta che abbia detto “guardo con fiducia al futuro”. Il sovranista non può essere ottimista, deve essere arrabbiato per definizione».

Qualcuno un domani potrebbe definire la Meloni una grande statista.

«La grandezza andrebbe vista in contesti più perigliosi, lei in fondo sta mantenendo il consenso delle ultime elezioni. E soprattutto i grandi statisti si misurano sui disegni riformatori, qui non ne vedo nulla di simile».

Come sta cambiando l’Italia?

«Lo spread è sotto controllo, ma dal punto di vista economico-sociale il Paese è estremamente simile a quello di prima. Prova ne è che non si riescono a spendere i soldi del Pnrr che pur arrivano. Sono quelle di prima le disuguaglianze e non vedo l’annunciata rivoluzione meritocratica. Vedo invece molte bandiere identitarie, come il premierato. Che peraltro non si capisce come si concilierà con l’autonomia, bandiera della Lega».

L’opposizione che cosa fa?
«Detto con una battuta, il campo largo si trova tra la fase del campo minato e quella del campo santo. Mai vista un’opposizione così. Non solo divisa, ma sbandata, senza un asse politico-culturale e una visione d’insieme. La rappresentazione icastica della crisi è la segretaria del Pd che doveva candidarsi ovunque per sfidare Meloni e finisce in­vece sfiduciata dal suo stesso partito. Povero Berlin­guer, ipo­critamente messo nel­le tessere di partito… Li avrebbe spediti per direttissima alla scuola delle Frattocchie».

E il ruolo di Conte?
«È più abile, in questa competizione a sinistra. Il Pd si è messo in una situazione in cui gli accordi si fanno alle sue condizioni o non si fanno. Una trappola dovuta alla scelta di Schlein di impostare tutta la strategia con l’idea di recuperare a sinistra, sfidando Conte sul suo terreno e non su un’idea larga di Paese. Questo ha stressato il rapporto coi Cinque stelle, rendendo più difficile l’alleanza».

Quali prospettive, quindi, a livello politico?

«Se ne riparla dopo le Eu­ropee. E ci sarebbe da dire molto anche su come queste elezioni siano state trasformate in sondaggio nazionale. Due guerre, una nel cuore dell’Europa una nel Medi­terraneo, l’eventualità di un ritorno di Trump, la rottura di un ordine mondiale: le pare che qualcuno parli di questo?».

Cosa prevede alle Europee?
«Un record di astensionismo, perché una classe politica pro­vinciale e mediocre le ha rese una competizione separata dalla realtà. Sono un battibecco da talk, non una contesa tra visioni di Europa e del mon­do».

Come si è arrivati a questo?
«È il prodotto di almeno un ventennio di spoliticizzazione, antipolitica, trasformismo. Si sono distrutti i partiti e questo è il risultato. Un da­to: Giorgia Meloni, con tutti i suoi limiti, è la leader più partitista di tutti, nel senso che viene dalla gavetta. For­se non è un caso. Da dove de­vono venire le classi dirigenti se non dai partiti?».
Chiudiamo sul locale: è mai stato nelle Langhe?
«Sì. E dopo un incontro con Oscar Farinetti, imprenditore di talento assoluto, ci siamo ripromessi di rivederci per la presentazione di un libro lì da lui. Ottima occasione per nutrire corpo e spirito».

CHI È

Vicedirettore dell’Huffington Post, laureato “cum laude” in Storia contemporanea all’Università di Bologna, è un attento e qualificato osservatore della scena politica nazionale. Si definisce con orgoglio “un allievo” di Emanuele Macaluso, con il quale ha collaborato a Il Riformista

COSA HA FATTO

Ha scritto, tra gli altri, “La volta buona” (2014, Editori Riuniti) sull’ascesa di Matteo Renzi e
“I comunisti e il partito” (2002, Carocci ) sul Pci

COSA FA

E spesso ospite delle trasmissioni di Lilli Gruber e di Giovanni Floris su La7, firma editoriali per La Stampa. È il compagno di Anna Maria Bernini, ministro dell’Università e della Ricerca