Castelmagno story

quello che oggi vediamo come un prodotto esclusivo per palati raffinati, nei secoli (a partire dal 1200) è stato un mezzo di sostentamento fondamentale per le famiglie della valle grana

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L’occasione per parlare di uno dei protagonisti indiscussi delle nostre montagne è stata una camminata in Valle Grana. Dimentichiamo troppo spesso che quello che noi oggi vediamo come un prodotto esclusivo per palati raffinati, durante i secoli scorsi ha rappresentato un mezzo di sostentamento fondamentale, perché di fatto questo è ciò che è stato per secoli il formaggio. La provincia di Cuneo vanta ben due denominazioni storiche legate alla tradizione della montagna. La Raschera, originaria del monregalese e il Castelmagno, appunto della Valle Grana, uno dei formaggi più antichi d’Italia, oltre che una delle denominazioni italiane più piccole, visto che si può produrre soltanto in tre comuni che insieme non arrivano a contare nemmeno un migliaio di abitanti: Monterosso Grana, Pradleves e Castelmagno. Tanto per rendere l’idea delle dimensioni ridotte basta paragonarla con il disciplinare di altre Dop piemontesi. Il gorgonzola può essere prodotto nell’intero territorio di quindici province più 33 comuni mentre il raro e delizioso Roccaverano in 19 comuni.
Tanto basti per far capire che il Castelmagno è una vera e propria preziosità per la quale dobbiamo ringraziare i produttori che resistono e mantengono alta la bandiera della tradizione. Di alcuni di loro ve ne parlerò presto, ma oggi volevo raccontarvi di come durante una semplice camminata sono riuscita a fare un salto indietro nel tempo.
Per farvi capire la sensazione devo raccontarvi qualcosa di più sulla storia del Castelmagno. Le cronache del 1200 già parlavano di un formaggio prodotto in quel territorio e usato come pagamento per l’affitto di pascoli, ma il vero scopo delle forme piuttosto grandi, tonde e cilindriche, era garantire la sopravvivenza durante i lunghi inverni. Il metodo di far fuoriuscire tutto il siero che rende dapprima la pasta asciutta che poi si ammorbidisce e si profuma con la stagionatura, era necessario per evitare che ammuffisse nelle cantine di pietra piuttosto umide in cui trascorreva l’inverno. E se è vero che i comuni sono soltanto tre, le borgate in pietra che punteggiano i pendii della valle sono infinite, così che ogni famiglia, ogni borgata avesse la sua ricetta. «Tanti Castelmagni come sono le famiglie che lo fanno» diceva uno studio dell’Istituto zootecnico e caseario del 1922 che si proponeva di studiare, uniformare e mettere a sistema la produzione di un formaggio che fino a quel momento era conosciuto solo come Toma Duro.
Ora capirete la mia meraviglia quando camminando tra le antiche borgate, per lo più disabitate, nel comune di Monterosso mi sono imbattuta per caso in uno degli ultimi pastori che allevano le vacche e fanno il formaggio come tutte le generazioni della sua famiglia gli hanno insegnato. Poche forme stagionate sulle assi appese nei crutin di pietra, come si faceva un tempo. È raro vedere abitate e vive una di quelle baite di pietra, ancora più raro aver la possibilità di affondare il naso in aromi che hanno il sapore della vita di un tempo. Una vita dura che ci continua a regalare prodotti unici che abbiamo il dovere di continuare a rispettare e tutelare.

Articolo a cura di Paola Gula