«Con il nostro podcast riaccendiamo una luce sul caso Damiano»

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Chi era Amedeo Damiano? Un uomo onesto che, nel suo ruolo di presidente dell’Ussl di Sa­luzzo aveva avviato un’indagine interna contro alcuni comportamenti scorretti, a tutela dei pazienti. Quel 24 marzo del 1987 due sicari lo attendono al suo rientro a ca­sa e gli sparano alle gambe. A causa delle complicazioni, cen­to giorni dopo Damiano muore in un ospedale di Imola. Il percorso giudiziario non trova colpevoli e nel 2020 l’associazione Libera aggiunge il nome del dirigente saluzzese all’elenco delle vittime innocenti di mafia. Francesca Zanni, assieme a Enrico Bergianti, ha realizzato per Radio 24 il podcast “Cento giorni dopo” dedicato proprio alla tragica vicenda di Damiano.

Come è nata l’idea di approfondire questo caso?
«Sono di Reggio Emilia e la storia non l’ho conosciuta per vicinanza territoriale, ma per­ché avevo già il mio podcast “Irrisolti” che si occupava di casi rimasti senza una soluzione, in Italia e nel mon­do, e mi ha contattato Gio­vanni Damiano, il figlio di Amedeo. Mi ha detto che era un ascoltatore assiduo e che gli sarebbe piaciuto se avessi dedicato una puntata del mio programma a suo padre. Mi ha mandato una serie di informazioni, poi ne ho cercate altre, ho letto tutto e ho capito che c’era materiale per realizzare una serie più ampia. In quel periodo avevo iniziato a collaborare con Radio 24, ho proposto la storia a loro che poi hanno prodotto il podcast».

Come si è svolto il suo lavoro?
«È stato un complesso, partendo dalla storia dell’87 e passando per 14 processi, difficile anche solo ricostruire l’iter processuale e trovare do­po tanto tempo (sono passati 36 anni) persone informate. Però è stato interessante riscoprire una figura poco conosciuta e portarla all’attenzione del grande pubblico con Radio 24, per una storia che valeva la pena raccontare. Anche se mancano i mandanti e si spera che finalmente si arrivi a una soluzione».

Un caso di mafia al nord.
«Si è spesso associato questo caso a quello di Bruno Caccia che nel 1983 ave­va subito più o meno la stessa sorte. Fu l’unico magistrato ucciso al nord. Quattro anni do­po accadde anche a Damiano che non era un giudice, ma un am­ministratore pubblico: due vittime della mafia al nord, dove si pensa che non ci sia. Io non ero mai stata in provincia di Cuneo e quando sono arrivata a Saluzzo ho pensato che non corrispondeva affatto agli ambienti mafiosi come nell’immaginario collettivo. Però intervistando tan­te persone nel territorio, mi hanno detto che la città è tranquilla e pacifica apparentemente, poi anche qui ci sono aspetti da indagare come è successo nel corso degli anni».

Che cosa accadde in quegli anni?
«Il caso di Da­miano si svolge nell’ambito della sa­nità, pochi an­ni dopo la riforma del 1978 e sembrava qualcosa di estraneo. Nel podcast abbiamo intervistato Da­niela Marcone, anche lei figlia di una vittima di mafia che lavorava nel pubblico, all’ufficio del registro, nel ’95. Parliamo di Puglia, ma neanche quello all’epoca era considerato un territorio di mafia. È un ambito scivoloso dove muoversi senza sbagliare è difficile, si rischia di incorrere in problemi inattesi».

Perché tanti casi irrisolti in Italia?
«Penso in realtà che ce ne siano in tutto il mondo, ho affrontato casi ovunque. Poi, ovvio, mi appassiona di più la realtà italiana. Le ragioni di tutto ciò sono molteplici nel nostro Paese, a partire dal problema legato allo svolgimento delle indagini e purtroppo anche alle collusioni. Sergio Soave (presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Sa­vi­gliano e dell’Istituto della Re­sistenza e della società contemporanea di Cuneo) ci ha parlato di infiltrazioni. In ge­nerale i casi sono difficili da risolvere a prescindere dal con­testo culturale. Qui si sa­rebbe potuto arrivare a un mandante, le collusioni han­no impedito di fare giustizia».

Damiano rientrò a Saluzzo da Mi­lano, preoccupato per l’esca­lation del terrorismo. Era­no al­tri tempi?
«Era un contesto diverso, nella puntata 2 partiamo dal racconto di piazza Fontana, degli anni di piombo che era­no molto diversi dai nostri. Oggi consideriamo chiusa la stagione del terrorismo, il 1987 era invece più vicino a alla nostra sensibilità. Si stava uscendo da quella fase, ma era comunque un periodo di­verso rispetto all’attuale e nel frattempo ci sono state le ri­forme della sanità e della giustizia che in quegli anni han­no modificato queste due istituzioni pubbliche con un cam­bio di visione. Un problema per le indagini, come ci ha raccontato il magistrato Al­berto Candi che era incaricato di seguire il caso: la riforma della giustizia condizionò il suo ruolo, creando una di­spersione di attività».

Come è stato il suo viaggio in Piemonte?
«Devo ringraziare tanto Gio­vanni Damiano che con noi è stato eccezionale, ci ha ospitato come un fratello, ci ha spiegato come funzionavano le cose. Preziosi anche due giornalisti di Saluzzo nel raccontarci uno spaccato degli anni ’80 nel Cu­neese, Alberto Gedda e Giam­paolo Testa. E grazie a Sergio Soave, un’autentica enciclo­pe­­­dia vivente. Cito anche Chri­stian La Rosa, giovane at­tore di Saluzzo che ha creato uno spettacolo teatrale partendo dal libro di Sergio Anelli su questo caso. Lui è della mia generazione e ci ha raccontato la provincia di Cuneo attuale, laboriosa e attiva ma con le sue contraddizioni. Una terra di lavoratori molto impegnati nelle istituzioni e nel sociale ma con dinamiche molto provinciali. Lo spettacolo mantiene viva la memoria ed è un esempio bellissimo per il territorio che si distanzia da certe dinamiche».

Perché il podcast?
«È il mio mezzo preferito, mi piace fare giornalismo con la voce. È efficace perché ascoltando i podcast diamo spazio ad altre attività, dal camminare al fare le pulizie o la spesa. Facciamo informazione utilizzando un canale diverso, la voce è bella da ascoltare perché porta complessità e pienezza al racconto che le immagini appiattiscono. Il racconto orale è decisamente più vivo della forma scritta. Credo di parlare anche a nome degli ascoltatori, il boom che c’è stato a proposito dei podcast è dovuto alla diffusione della digitalizzazione nella società dopo il Covid. È una forma di informazione che, al contrario dei social, non fa sprecare tempo».

CHI È

Classe 1988, è giornalista pubblicista, coordinatrice di redazione, formatrice e correttrice di bozze freelance. Si è specializzata nella realizzazione dei podcast, raccontando in particolare storie legate a misteri di cronaca che sono rimasti irrisolti (nella foto sopra, Amedeo Damiano)

COSA HA FATTO

Ha esordito nel 2020 con la serie “Irrisolti. I misteri del crimine” e nel 2022 ha pubblicato il podcast “Rumore. Il caso di Federico Aldrovandi”, che ha vinto il premio “Pod 24” consegnato al Festival del Podcasting 2022 (nella foto Giovanni Damiano con gli autori)

COSA FA

Sulla piattaforma online di Radio 24 si possono ascoltare le puntate di “Cento giorni dopo – Il caso Amedeo Damiano”, il podcast che racconta la storia del dirigente saluzzese che rientrò in Piemonte dopo un’esperienza lavorativa a Milano, preoccupato per i primi segnali violenti del terrorismo, e trovò la morte sotto casa per mano della mafia (nella foto, la presentazione del podcast)