«Genitori, attenti a questi segnali nelle relazioni»

La criminologa Roberta Bruzzone dopo il caso di Giulia e Filippo: «Ricevo centinaia di richieste di aiuto»

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Tra uno studio televisivo e l’altro, la criminologa Roberta Bruzzone ha concesso questa intervista a IDEA per analizzare il contesto della dram­matica uccisione di Giulia Cecchettin da parte dell’ex fi­danzato Filippo Turetta, ora in carcere.

Dottoressa, si parla molto di femminicidi perché se ne ve­rificano davvero tanti.

«I dati in realtà sono sostanzialmente stabili, gli stessi da 20-25 anni. Il problema è che quei numeri non scendono».

Cosa c’è dietro ai femminicidi?
«Rappresentano la punta dell’iceberg di un mondo di maltrattamenti, violenza fisica e psicologica con numeri spaventosi che in larga parte non conosciamo, perché solo due donne su dieci, tra quelle che subiscono violenze, decidono di chiedere aiuto e denunciare».

Ora però l’allarme sta risuonando con forza.

«Dopo l’omicidio di Giulia Cecchettin, per la tipologia della relazione che aveva la ragazza con questo Filippo apparentemente “bravo” – ma non lo era affatto – il mio studio ha ricevuto almeno 300 richieste di aiuto da parte di ragazze o genitori di ragazze che esordivano così: “Io ho lo stesso tipo di relazione” oppure “ho mia fi­glia nello stesso tipo di relazione”».

Cioè come quella di Giulia con Filippo?
«Me ne occupo da trent’anni e so bene cosa siano i narcisisti passivo-aggressivi, i “covert”. Il caso di Giulia ha strappato il velo davanti all’opinione pubblica per quanto riguarda questa tipologia, terribilmente subdola e dunque pericolosa».

Un fenomeno che non è riconducibile solo al patriarcato?
«Oltre a quello abbiamo un problema di disagio psicologico profondo, disturbi della personalità che con il patriarcato van­no a braccetto. Ero in trasmissione domenica scorsa e l’inviata – una ragazza in gamba con strumenti culturali adeguati -davanti alla casa dei Cecchettin ha detto “adesso Elena (la sorella di Giulia) è rimasta l’unica donna di casa e dovrà prendersi cura del fratello e del padre”… Questo è il patriarcato a cui mi riferisco, ti porta a tollerare certi atteggiamenti e a considerarli addirittura segno di interesse».

Una questione culturale?
«Basta andare a vedere i titoli di giornale che celebrano donne protagoniste di imprese importanti. Cosa non hanno combinato con la Cristoforetti, da AstroSamantha ad Astromam­ma quando è tornata in orbita dopo aver partorito la prima fi­glia. Nel caso Cecchettin, c’è inoltre un disagio che per questa categoria di narcisisti passivo-aggressivi può non essere colto nella giusta prospettiva da chi è vicino a queste persone, genitori inclusi».

Filippo però non risponde all’ im­magine del “macho”.
«È un “maschio beta” che fa ad­dirittura i biscotti, questo assedio di attenzioni è un modo per non lasciare – come è successo – spazi di autonomia, spacciando il tutto per amore incondizionato. Una modalità controllante pericolosa per­ché questo soggetto non tollera di essere abbandonato, sconfitto, superato o in qualche modo dimenticato».

Colpisce la giovane età dei protagonisti.
«Questo è il problema, la stragrande maggioranza delle se­gnalazioni che ho ricevuto arrivano da ragazze di quella fascia di età, lì c’è proprio un problema di salute mentale. E in famiglia non se ne accorgono: “Era un po’ morboso, la chia­mava trenta volte al giorno, diceva di volersi uccidere senza di lei”. Questi non sono segnali da sottovalutare».

Lei tiene spesso incontri con gli studenti: come reagiscono?

«Faccio domande molto precise. L’ultima volta a 650 ragazzi delle scuole superiori ho chiesto: “tra di voi ci sono ragazze a cui è stato chiesto dal fidanzato di cedergli la password del telefonino?”, molte mani si sono alzate. Ho chiesto se secondo loro fosse un segno di interesse o di disagio psicologico e, per la maggior parte, era un segno di interesse. Ritengono che il controllo misuri l’affetto, anche se non lascia respirare».

Filippo non voleva che Giulia si laureasse…

«L’ultima goccia non è stata tanto la fine della storia, il problema è che loro facevano tutto insieme e lui non contemplava che lei si laureasse prima: voleva dire sentirsi superato e sconfitto. Consideri che nella parte narcisistica, anche meno evidente, il sé grandioso è sempre dietro l’angolo. L’idea che qualcuno potesse pensare che lei fosse migliore di lui, non era tollerata».

Fenomeni come anoressia o “cutting” sono riconducibili a questa realtà?
«Certo, perché alla base c’è la paura del giudizio degli altri, si teme che questa idea di sé de­gradata e svalutata, venga stigmatizzata in maniera evidente. Finché gli altri non se ne accorgono, il soggetto gestisce l’angoscia, ma quando teme di essere smascherato in questa sua di­mensione di fragilità, diventa ag­gressivo e distruttivo».

Serve un grande lavoro culturale?

«C’è anche da far comprendere ai genitori qualche strumento in più per capire se hanno in casa uno come Turetta. Perché molti ce l’hanno in casa. Sono tutti potenziali assassini? Que­sto non posso dirlo, però è bene farsi qualche domanda. Nella mia carriera ne ho periziati più di qualcuno, soggetti passivo-aggressivi che hanno combinato cose turpi, progettandole. Uno di questi, lo ricorderete è Antonio De Marco au­tore del duplice omicidio di Lecce: Eleonora Manta e Da­niele De Santis le vittime. Pro­gettò per mesi di assassinarli perché li invidiava».

Quali dinamiche caratterizzano questi soggetti?

«Dinamiche legate a modelli educativi, a esperienze molto precoci. Il nucleo della personalità si forma entro i primi tre anni di vita. Un campanello d’allarme è capire se il proprio figlio ce la fa a stabilire relazioni oppure no».

Ovvero?

«Non è normale che un ragazzo di 22 anni non abbia amici se non quelli che ha ereditato dalla fidanzata. Sono bambini onnipotenti troppo cresciuti che impongono il loro modo “avvinghiante” di rapportarsi in maniera distorta, non paritetica, controllando spietatamente la relazione. Senza che ciò avvenga necessariamente con evidenza».

Quali sono allora i segnali da cogliere?

«Suggerisco sempre di osservare la sfera delle relazioni, come gestiscono le frustrazioni e l’idea che una relazione possa finire. Perché dire “voglio morire” alla fine di una storia non è normale. Si può avere qualche giorno di down, certo, ma se quella condizione è sbandierata a tutti, c’è qualcosa che non va».