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«Racconto le Langhe perché insegnano a reagire sempre»

La scrittrice americana Suzanne Hoffman presenta alla Rivista IDEA il suo primo romanzo in italiano

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Gli amori, le fatiche e il coraggio in tempi di guerra sono al centro del romanzo di esordio della scrit­trice statunitense Su­zan­ne Hoffman che da oltre vent’anni considera il Pie­monte una seconda casa. Nel libro – presentato venerdì scor­so, a Cherasco, dall’autrice stessa, in dialogo con la ba­rolista Chiara Boschis (e che il 3 novembre alle 20,45 sarà protagonista in biblioteca a Treiso) – l’azione, ricca di colpi di scena, si svolge nella prima metà del No­vecento: dall’avvento del Fascismo fino all’occupazione nazista successiva all’8 set­­­tembre 1943. Prota­go­ni­ste della narrazione, che si sviluppa tra le vigne di Bar­ba­resco, Alba, To­rino e le colline dell’Alta Lan­ga, sono le donne, indiscusso perno della famiglia piemontese, in grado di trasformare tempi cupi in occasioni di rinascita.

Come mai una scrittrice americana si è cimentata in un ro­manzo così emozionante sul­le Langhe?
«È una domanda che mi sono posta spesso, anche perché An­gelo Gaja mi chiese, nel giu­gno 2016, poco dopo l’u­scita del mio libro sulle donne delle famiglie del vino “Labor of Love”: “Perché c’è voluta una donna americana per scrivere un libro che avremmo dovuto scrivere noi?”. Che io sappia, non esiste un romanzo sulle Langhe di quell’epoca scritto in inglese e io sentivo che avrebbe dovuto esserci. La mia risposta breve a Gaja è stata, ed è anche questa volta, “qualcuno doveva farlo”. Ma si po­trebbe anche dire che ho scritto perché i piemontesi, umili come sono, non hanno piena coscienza di quanto sia im­portante e stimolante la loro storia».

Cosa la incuriosisce, in particolare, di questo territorio?
«Credo che non si parli abbastanza delle Langhe che stanno dietro alle etichette dei suoi grandi vini. Nel corso degli anni ho conosciuto gran­di storie di coraggio, ono­re e la forza d’animo che han­no aiutato i piemontesi a rimanere nella loro terra e non soltanto a sopravvivere alle tragedie dell’inizio del XX secolo, ma a risorgere come una fenice dalle proprie ceneri. La gente oggi guarda i punteggi dei grandi vini ma qualcuno doveva scavare più a fondo per capire come mai oggi li abbiamo. Volevo che le persone al di là del mondo del vino conoscessero questa gran­de regione, la sua storia, la sua cultura e la sua gente».

Com’è nata l’idea del libro dedicato al Piemonte, vi­sto che l’ha scritto mentre si trovava in Colorado, nel 2020, senza avere l’opportunità di vivere questa zona?
«Il sogno di scrivere un ro­manzo sulle Langhe dei primi anni del Novecento è nato nel 2003, quando ho conosciuto la produttrice di Barbaresco Giovanna Rizzolio: aprendomi la por­ta sulla vita di sua non­na Beatrice Roggero Riz­zolio, ha acceso il mio desiderio di conoscere meglio le storie del­le famiglie delle Lan­ghe. Nell’aprile 2020, mio marito Dani mi ha suggerito di scrivere il romanzo per affrontare la paura e anche la separazione dai miei amici piemontesi, che sono una fa­miglia per me. Così ho scavato nel mio cuore e nei miei archivi per creare questa storia di cui gli amici piemontesi, appunto, sono stati i miei occhi sul territorio. È stato te­rapeutico e mi ha permesso di mantenere il mio legame con loro. E adesso ho già un’i­dea per il sequel, che si svolgerà a Barbaresco, ma negli anni Cinquanta».

La stesura del romanzo ha ri­chiesto un grande lavoro di ricerca sulla vita e sulle tradizioni diffuse in Piemonte nei primi decenni del XX secolo. Chi l’ha aiutata a recuperare det­tagli così precisi?
«Avevo un bagaglio di informazioni che mi derivava dall’aver visitato il Piemonte per oltre vent’anni. Avevo oltre duecento ore di interviste ai produttori, un ampio archivio fotografico e… Google Street View per i dettagli geografici. Internet è stato una risorsa, ho trovato diversi libri di se­conda mano in vendita. Avrei voluto comprare anche una copia in inglese de “Il partigiano Johnny”, ma costava 500 dollari…».

Tra gli elementi che rendono il suo romanzo un’opera realistica e coinvolgente c’è l’uso del dialetto piemontese. L’ha im­parato per davvero o si è fatta aiutare dagli esperti?
«Entrambe le cose. Ho avuto la fortuna di incontrare molti nonni ottantenni e novantenni nelle famiglie del vino e ho avuto modo di conoscere persone care come Ernesto e Fiorina Grasso, le cui vite ap­paiono in alcuni personaggi e storie. Molto di ciò che ho in­cluso nei capitoli sulla na­scita della mia protagonista, Sara, e sulle cucine proviene proprio da “nonna Fio­ri­na” Grasso».

Il suo libro è un romanzo d’amore e di guerra, ma è an­che una saga di famiglie, mos­­se da legami, passioni, de­sideri, paure. Si è ispirata in parte alla sua di famiglia o alle famiglie che ha incontrato in Piemonte?
«Anche in questo caso la risposta è doppia. Ciò che amo di più del romanzo è che posso scavare nel profondo delle mie esperienze di vita per creare personaggi e trame avvincenti. È impossibile scrivere narrativa senza che le proprie esperienze e convinzioni si intreccino alla storia».

Quali sono i messaggi che que­sto lavoro vuole comunicare al pubblico?

«Il primo è che la famiglia e la comunità sono fondamentali per sopravvivere ai tempi duri e per ricostruire le vite successive e il secondo, non meno importante, è che stiamo vivendo in tempi che ricordano gli anni Trenta e che, quindi, dobbiamo stare decisamente all’erta».

Dove possiamo trovare “Amo­re e guerra in Alta Langa”?

«Nelle librerie del Piemonte sicuramente. Poi sui principali store online e sul sito dell’Araba Fenice, infine sui banchi dell’editore a fiere e mercatini di Pie­monte e Liguria».

Prima di salutarla, vorrei però sa­pere qual è la sua parola preferita in piemontese…

«Mi piace molto la frase iconica “doi po­vron bagnà ant r’euri”, ovvero “due peperoni ba­gnati nell’olio”. E, na­tu­ral­men­te, la prima espressione piemontese che ho imparato: “bo­gia nen” (“non ti muovere”). Me l’ha insegnata il produttore di Canale Tonino Del­tetto nel 2004, all’inizio del­la mia av­ventura piemontese».