«Sospeso sul vuoto guardo oltre e cerco la libertà»

Torinese e una laurea in Filosofia, Andrea Loreni di professione fa il funambolo. Si è raccontato a IDEA: «Anche l’ultimo passo richiede la totale presenza. Serve armonia, proprio come nella vita»

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“Ha camminato sopra l’acqua”. Si leg­ge an­che questo nella nota biografica di Andrea Loreni. E quasi quasi si finisce per crederci. Magia di un funambolo e di tutti i suoi prodigi. In realtà lui preferisce camminare sul vuoto e se sotto il vuoto c’è l’acqua, meglio an­cora: almeno per noi. Ma per lui no, lui ama le traversate sulle città, tra vetta e vetta e poi sì, va bene anche l’acqua, ma sempre e soltanto con il vuoto di mez­zo. E, soprattutto, che ne valga la pena: sull’Adda, lunghezza record di 220 metri, sul Te­ve­re, proprio di fronte a Castel Sant’Angelo e poi fuori confine, fino in Giappone, a Okayama, sul lago del Tempio Sogen-ji.

Insomma, Loreni, il suo intervento non poteva certo mancare nella rassegna genovese di­retta da Sergio Maifredi “Dia­loghi sulla rappresentazione” che quest’anno è proprio dedicata al tema del vuoto. La vedremo all’opera o dovremo accontentarci di racconti e immagini?

«All’opera, a Palazzo Tursi, non mi vedrete. Ma racconterò cosa significa per me camminare in equilibrio su una corda, il vuoto è il primo elemento del mio lavoro».

Quando è nata questa fascinazione?
«Molto presto, da bambino, anche se non è nata come fascinazione per un’esperienza e­stre­ma. Sono uscito da solo sul balcone della casa di mia non­na, a Torino, sesto piano, e guardando oltre il parapetto, mi sono spaventato. Consideri che io vivevo in campagna e a certe altezze non ero abituato».

Quindi c’è stata una sorta di shock iniziale?
«Credo che all’origine di quello spavento ci fosse una forte attrazione».

Che ha avuto un bel seguito.
«Sì, anche perché il parapetto è diventato una specie di metafora e in modo quasi inconsapevole ho trovato il mio modo di an­dare oltre: affrontando il ri­schio di perdersi come se fosse una chance, un limite da superare».

Qual è il suo rapporto con la paura? Mi chiedo spesso il senso, per esempio da parte di un acrobata, di agire senza rete. Cosa cambia?
«In questo caso ci sono due aspetti da considerare. Il primo riguarda il voyeurismo del pub­blico: più eclatante è il gesto più lo soddisfi. Il secondo riguarda invece la libertà, la tua libertà come indipendenza dal­la sicurezza. Nella performance senza rete c’è una ricerca di libertà maggiore».

Ma ne vale la pena?
«La domanda è un’altra e cioè: “cosa vuoi dare al tuo pubblico?”. Uno spettacolo in cui la morte è soltanto evocata o po­tenzialmente presente? Sono due esperienze diverse e, di nuo­­vo, si torna a chiedersi se la fruizione sarebbe la stessa sen­za lo spettro della morte».

E lei che risposta si dà?
«La questione è aperta. Io dico che il rischio zero non è possibile, non appartiene al funambolo, anzi, una dose di rischio è essenziale».

Ci sono state traversate in cui ha avuto davvero paura?

«Lo scorso anno, a Frassinetto, nel Canavese: 300 metri di al­tezza e 350 di traversata. E poi lo scorso maggio, a Milano, per il Fe­stival delle Meraviglie, una traversata di 205 metri dal Bo­sco Verticale all’UniCredit To­wer, che è l’edificio più alto d’Italia».

Non succede mai di essere di­stratti da necessità quotidiane, tipo la sete?
«No, questa è un’altra libertà che ti conquisti sul cavo. A me stanca la preparazione per una traversata, l’allestimento. E quando è finita mi viene da dire: “adesso vado a riposarmi un po’ sul cavo”».

È vero che il funambolismo l’ha avvicinata alla meditazione zen?
«Sì, ma è successo tutto a livello pratico, attraverso un amico al­pi­nista a cui mi ero rivolto per ca­pire come funzionano le cor­de, i nodi e tutte quelle cose che io ignoravo. Lui è anche dedito alla vipassana, una pratica buddista che si basa sull’auto-osservazione e io mi sono accorto che tra quella disciplina e il funambolismo ci poteva essere un dialogo».

A proposito di auto-osservazione, dove guarda quando è sul cavo?
«Mai verso l’obiettivo. La traversata è un lavoro sul “qui e ora” e anche l’ultimo passo ri­chiede la totale presenza. Mol­ti sono caduti proprio a un passo dalla fine perché la davano per scontata».

Il lavoro sull’equilibrio presuppone la capacità di stare nel di­se­quilibrio è una sua affermazione che ribadisce an­che nelle conferenze e nei seminari che è chiamato spes­so a tenere. Mi spie­­ga meglio cosa intende?

«La nostra vita si sviluppa nel disequilibrio, che è anche generativo. La camminata stessa, il procedere facendo un passo significa muovere da uno stato di disequilibrio. Che è quella con­dizione che intercorre tra due estremi, tra famiglia e lavoro, per esempio. La gestione di questo disequilibrio è l’armonia, è rendersi conto che due è parte di uno, che di un’unità ci possono essere due emanazioni».

Concretamente?
«Stando all’esempio, che non si deve scegliere tra lavoro e famiglia, ma si possono conciliare».

Già, la famiglia: sua moglie non le hai mai chiesto di cambiare mestiere? Dopotutto ha una laurea in Filosofia, una cosa ben più tranquilla…
«Ma quando mai! Mia moglie è un’acrobata».

Della vita? Nel senso che è un modo di dire?
«No no, fa proprio l’acrobata. E mia figlia che ha nove anni considera i nostri lavori una cosa normale. Un papà fa l’avvocato, uno l’idraulico, il suo il funambolo».

Non ha mai espresso il desiderio di emularla?
«Per ora no e io non intendo incentivarla. Anche per evitare di ottenere il contrario».

Mi dica ancora una cosa: nel suo libro “Breve corso di fu­nam­bolismo per chi cammina col vento. Sette passi per attraversare la vita”, edito da Mon­dadori, si parla anche di gentilezza. Com’è un funambolo gentile rispetto a uno che non lo è?

«La gentilezza arriva anche da una grazia del corpo, da un’armonia, da una rilassatezza che al funambolo è essenziale. E che poi diventa attitudine pure nella vita».

Articolo a cura di Alessandra Bernocco