«L’amaro giusto alla fine ci lascia un dolce equilibrio»

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Il quarto romanzo di Paola Gula ha a che fa­re con un’esperienza gu­stativa che è sinonimo anche di una condizione psicologica: “L’amaro in boc­ca”. Qualcosa che la protagonista del racconto, ambientato a Ceva, prova a un certo punto della sua vita, «perché – spiega l’autrice – non ha più entusiasmo. Greta è una giornalista enogastronomica che di lavoro fa la vicedirettrice in una rivista specializzata torinese. Ma il giornalismo negli ultimi anni è cambiato e lei ne soffre. Si sente, appunto, ama­reggiata».

Ci sono inevitabilmente spunti autobiografici?

«Ho tante cose che condivido con il personaggio di Greta: anche a lei piace leggere, scrivere e andare in bici. Succede che al culmine di questo suo periodo di crisi, decide di ri­prendere la sua mountain bike e partendo da Ceva va a fare un giro in Alta Langa, si concede questo “colpo di vita” e torna a essere se stessa, così torna a viaggiare. La sua bici si chiama “Rossella fiàt curt”, lo stesso nome dato alla mia bici da un mio amico. E come me anche Greta ha amato certi miei indimenticabili viaggi, a Porto oppure in Estonia, alla ricerca di un formaggio antico e sorprendente».

A proposito: nel libro ci sono anche tanti riferimenti enogastronomici.

«Sono altri punti di contatto, visto che anch’io, come lei, mi sento più attratta dalle osterie che dai ristoranti stellati».

Tutti dettagli che rimandano sempre a questo territorio.
«Sono i posti che amo, stavolta con questo libro sono an­che riuscita a parlare di Ceva, dove sono nata e che non è più casa mia – ora vivo a Cuneo – ma che per una sorta di pudore non avevo mai raccontato nei miei testi. Pa­rafrasando un po’ Pavese, che adoro, “un paese ci vuole”. Un paese che torna sempre e che resta un luogo del cuore».

Dunque anche il tema del viaggiare rimane centrale?
«Tornando a casa dopo un bel viaggio, ogni volta ho avuto la sensazione di dare maggiore valore a dettagli locali che prima non avevo saputo scorgere. Greta va lontano per ritrovare se stessa. C’è un altro particolare che lega il racconto al territorio. Ho voluto replicare alcuni personaggi realmente esistenti. Per esempio, i fratelli Dellaferrera della trattoria La Coccinella, oppure un maestro di degustazioni come Massimo Mar­tinelli».

Che cosa le resta di questo suo lavoro, quale sensazione?
«La più grande felicità la pro­vo quando mi dicono: non riuscivo a smettere di leggere. Oppure quando mi arrivano immagini dai luoghi raccontati nelle mie pagine. I lettori mi scrivono da posti come Elva o Valgrana e mi raccontano che cosa hanno provato ritrovandoli nella realtà. Il libro allora diventa un mezzo turistico non convenzionale. Di meraviglie ce ne sono, ma c’è da dire una cosa su noi piemontesi, specie di queste montagne e valli: siamo troppo “calvinisti” per poterci dedicare pienamente a cose “effimere” come il turismo».

Per IDEA scrive una rubrica che va alla ricerca di sapori poco conosciuti, ma anche di storie.

«Sì, nell’enogastronomia cer­co sempre il lato umano, la creatività che emerge se mi guardo intorno. Ci sono piccole cose straordinarie e po­trei fare tanti esempi. Nell’ultima uscita abbiamo raccontato le caramelle di Da­niela Salzotto e, in particolare, il colpo di genio legato ai messaggi in piemontese scritti sulle scatole. Non potete im­maginare quanti messaggi mi sono arrivati da persone incuriosite da un prodotto che, peraltro, è in commercio da una decina d’anni. In questo caso emerge la trovata del packaging, ma la genialità è diffusa. Ci sono tanti giovani che intraprendono nuove av­venture in questo campo, con la stessa capacità creativa. Raccontare così i protagonisti dell’enogastronomia locale è un altro modo per descrivere queste zone».

È anche un modo per esaltare aspetti piacevoli in un momento generale di difficoltà?

«Certamente. E dico di più, tornando al mio racconto: molto spesso i libri dedicati alla montagna e in particolare a questi nostri posti, tramandano storie di guerra e sofferenza, le vicende legate alle imprese dei partigiani. Io che prediligo Pavese e poi anche Fe­noglio, lo so bene. Però que­sto non significa che ci si possa concedere anche qualche sorriso narrando storie di montagna. E allora in “L’ama­ro in bocca” ho cercato di mettere un po’ di leggerezza. C’è anche un po’ di giallo. E soprattutto, i posti del cuore. Tornando da Ceva: quanti conoscono il Forte? Qui ho ambientato le ultime scene del libro ed è un luogo che smentisce gli stereotipi, regala bellezza e meraviglia. An­che se spesso è chiuso. Ep­pure è sorprendente».

In definitiva, quell’amaro in bocca, che significato ha?
«Avete presente un buon ama­ro alle erbe? All’inizio prevale quel gusto potente, ma alla fine vi lascia un dolce equilibrio».