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Mario Calabresi: «parlare ascoltando», ecco il consiglio agli studenti del Cravetta Marconi

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“Scegliete cosa fare e chi essere, non aspettate, non rimandate”, è forse il pensiero più efficace per provare a riassumere lo spirito che ha animato l’incontro con lo scrittore/giornalista Mario Calabresi.

Il prestigioso teatro Milanollo ha ospitato l’evento ideato dalla Biblioteca “Cravetta-Marconi”, di cui le anime sono le professoressa Manuela Cosentino e Stefania Bosio. La collaborazione con la “Fiera piemontese dell’editoria” di Cavallermaggiore e con il Sindaco Davide Sannazzaro (che ha dialogato con l’autore) con il Comune di Savigliano e l’Assessore alla cultura-turismo-università, Roberto Giorsino, ha dimostrato, se fosse necessario, che il lavoro in team, la trasversalità territoriale e le sinergie tra le scuole e le amministrazioni municipali, può soltanto giovare alla crescita comune.

Molti sono stati i temi che, inevitabilmente, il libro di Calabresi ha fatto emergere. Titolo enigmatico e significativo al contempo “Una volta sola”. Sono racconti, storie comuni, vissuti di persone, che l’autore ha dolcemente incalzato, coinvolgendole con la sua necessità di narrare con un occhio aperto e attento alle persone, per il loro (nostro) potenziale narrativo che diviene, in un certo senso, etico perché al centro delle loro testimonianze c’è l’umano, in tutte le sue sfaccettature.

Ogni racconto diviene una testimonianza e occorre ricordare l’intimo legame tra la parola “testimone” e la sua radice greca μάρτυς (martire) e μαρτυρέω (testimoniare). Il martire è il testimone per eccellenza; colui che attesta, attraverso una scelta chiara e non negoziabile, le proprie convinzioni, a costo di rimetterci la vita.

Calabresi ha una predisposizione al dialogo, e quindi anche all’ascolto dell’altro, eccezionale; ma in realtà dovremmo dire normale, se non fossimo abituati malamente, al monologo come prassi e alla sordità come capacità di ascolto. Ha raccontato alla silenziosa platea dei giovani studenti il suo esame finale per essere riconosciuto come giornalista.

Alla domanda dei commissari d’esame “cosa lo spingeva a voler fare questo mestiere”, ci ha raccontato che la sua risposta fu quello che lo anima da sempre, la curiosità; ricordiamoci che il termine, spesso travisato, deriva dal latino curiosus che a sua volta deriva da cura, che significa sollecitudine e quindi il curioso è colui che si cura, che è sollecito nell’investigare. Articolando il suo pensiero raccontò ai commissari d’esame che, fin bambino, nel tempo passato nella portineria del suo palazzo, coltivò la sua curiosità rispetto al mondo che gravitava in quel luogo. La risposta degli esaminatori fu che l’esame lo passava, perché lo scritto era eccellente, ma, in quanto alla sua risposta, tralasciavano ogni considerazione di merito. In questo episodio c’è l’attenzione all’altro, al mondo che gli ha permesso di scrivere, pagina dopo pagina, regalandoci un affresco di umanità, con l’ultimo libro. Numerose le domande da parte dei ragazzi, incalzanti e intelligenti, nel sondare aspetti particolari oppure gli sguardi ampi che attraversano il testo. A ogni domanda una risposta precisa e sincera che non nascondeva l’interesse nel porsi in relazione dialettica, cercando una risposta autentica. Le questioni proposte dagli studenti hanno toccato la sua storia personale, l’uccisione del padre quando lui era bambino, ma anche un altro suo libro, che ha suscitato interesse soprattutto nei ragazzi del corso di “Grafica e comunicazione”, il libro poi divenuto mostra “Ad occhi aperti”: una serie d’interviste ai più grandi fotografi viventi.

Calabresi ha offerto, anche in questa circostanza, un racconto della genesi di quel libro, costruito cocciutamente inseguendo i maestri della fotografia e al contempo ha analizzato il ruolo delle immagini e delle parole, riconoscendo il potenziale enorme delle prime ma l’imprescindibilità delle seconde. A tal proposito ha poi riflettuto sulla trasformazione dell’informazione e sulla necessità dei podcast come strumento assolutamente contemporaneo. Circa due ore condivise all’insegna del parlare del mondo, perché soltanto parlandone e ascoltandoci, si può e si deve sperare che il mondo possa diventare migliore di quello che è; e la scuola cos’altro dev’essere?

BaNNER
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