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«Tramandare i libri è una questione vitale lo faccio a teatro»

Divulgatore scientifico a “Elisir”, conduttore e pure attore: «Ma prima di tutto resto regista. Leggere bene è fondamentale per non stravolgere il significato dei classici. Benigni? Non faccio polemica, è stato diffidato dalle associazioni dantesche. Nel mio spettacolo cerco di rimettere ordine recitando come si deve»

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Non crediate che il ruolo di divulgatore scientifico che lo vede protago­ni­sta da quasi trent’anni a “Elisir” sia la sua unica occupazione. Anzi: «Nasco e resto regista di teatro, punto. Il resto è connesso alla mia professione, ad esempio mi piace scrivere per i giornali: ho una rubrica sul Corriere del Mezzogiorno».

Michele Mirabella, il suo è un mix di competenze?
«Come deve essere. La divulgazione scientifica non la può fare il medico, se un dottore chiedesse a un collega cos’è la cistifellea, quello risponderebbe: “Dillo tu!”. La maieutica prevede che un finto tonto che sono io, che ha spiluccato libri di medicina, faccia domande. Ho anche trenta film all’attivo, non nascondo che avrei preferito più teatro ma guardando indietro trovo 67 titoli di prosa, 32 opere…».

Qual è il filo conduttore delle sue attività?
«È la cultura».

Come il tema dello spettacolo teatrale che ha portato a Ver­bania, in Piemonte.
«Ho una convinzione ferma: il “tramandar” (come dice Dan­te) versi in epoche in cui non era diffusa la scrittura, era compito pregiatissimo lasciato ai giullari con una parte corriva e comica, ma professionale. Anche Plautino e Aristofane furono fior di professionisti. Tramandare la pagina scritta è un’opera complessa. Purtrop­po la cultura moderna ha interpretato maluccio questa necessità. Ma i libri muoiono se non vengono tramandati».

E il teatro cosa può fare?
«Il teatro l’ha fatta franca perché quei testi li ha spettacolarizzati con la drammaturgia per il palcoscenico e con la regia che interpreta il pensiero dell’autore, oltre la spiccata gigioneria degli attori, categoria di cui sono parte e quindi faccio autocritica».

Come si tramandano i libri?
«Con la tecnica che alle Ele­mentari era “Domani a memoria”, un’ingiunzione difficile da capire per noi bambini. Ma come imparare una poesia a memoria se non si conosce la metrica? Spesso senti pagatissimi finti divulgatori leggere Dante senza rispetto per quella fatica improba, i 17.500 versi endecasillabi collegati da rime alternate. Lui fa così tanta fatica e noi roviniamo tutto?».

Si riferisce forse a Roberto Benigni?
«Non mi faccia entrare in polemiche. Ma la Società dantesca lo ha più volte diffidato… È vero che di “Divina Com­media” si è parlato molto negli ultimi anni. Ma è stata recitata male. L’ultimo divulgatore affidabile è stato il mio amico Vittorio Sermonti, allievo di Contini, che ha spiegato Dante in maniera elegante, moderna e soprattutto documentatissima! Nel rispetto scolastico del verso e della terribile insidia delle rime alternate. È quanto tento di fare anch’io a teatro. Gli svarioni e la sciatteria mistificano la poetica».

A cosa si riferisce?
«Nel “Convivio” e poi nella “Vita nuova”, quel “Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia” recitato male a tutti noi in Prima liceo aveva fatto pensare male… Così come va capito il dissidio di Alighieri verso la convinzione pregressa che deve superare nei confronti di Beatrice, irraggiungibile musa e mediatrice nel rapporto con Dio. Dalla lettura deve venir sempre fuori il senso dei versi. Non parliamo poi delle traduzioni shakespeariane, le prosodie noiosissime nei provini degli attori che io stesso da regista ho dovuto sottoporre a candidati innocenti».

Nel suo spettacolo cita anche Leopardi.
«Tento di non rendere noioso “L’infinito”, perché è complessissimo. Non faccio discorsi tecnici, mi muovo con umiltà. Ci sto lavorando da quasi 50 anni, dall’università, dove ebbi come maestro Mario Sansone e dove mi sono laureato su Pirandello. Leggo preferibilmente Dante perché sono partito dalle celebrazioni di due anni fa. Ma ci sono tanti aspetti anche comici come conseguenza di cattive recitazioni. Penso al Carducci di “San Martino” o di “Pianto antico”, al Pascoli di “Romagna” o “X agosto” e al Manzoni del “5 maggio” che è poesia straordinariamente po­lemica ma sempre recitata ma­lissimo e trasformata in nenia insopportabile. Oggi la lettura ad alta voce è stata soppiantata dal marasma delle tecnologie».

Il successo dei podcast è un segnale di speranza?
«Concordo, io per primo ho inciso un cd di letture. E nei podcast chi legge solitamente è molto bravo. Quindi sì, c’è speranza. Ovunque il mio spettacolo attira gente, non per il mio talento che metto al servizio, ma per la novità. Le persone dicono: “Come ha fatto a non pensarci prima!”. Dico cose semplici, riconoscendo l’autorità dell’estetica».

E per apprezzarla da dove bisogna partire?
«Bisogna aver letto Gramsci e quel pensiero non pedagogico o didattico ma filosofico, bisogna aver letto e tramandato molti libri. Io lo so perché ho un’ampia biblioteca e catalogandola mi sono reso conto che la metà dei libri non l’ho letta. Ma io dico: non ancora».

Eppure oggi i mercati richiedono culture specifiche…
«Ma le fonti sono tante: cinema, tv, radio, la musica… Pensi al prodigio di poter ascoltare “Le nozze di Figaro” (la mia ultima regia messa in scena a Catania). Da Guttenberg in poi quanta cultura è stata diffusa dai mezzi meccanici? Un tempo quelli come Cecco Angiolieri portavano avanti la tradizione orale. Oggi non ci sono scuse per i moderni: basta premere un dito su uno stupido computer per aprire la Divina Commedia».

Conosce Alba?
«Al teatro ci sono stato. E una leggenda di famiglia tramandata da mio padre dice che il nostro cognome si trova nei documenti antichi di Alba. Mi­rabella è nome svevo, niente di più facile. Mozart nacque a Salisburgo non lontano da Schloss Mirabell».

Come si sviluppa il suo spettacolo?
«Ho l’abitudine di intercalare le recitazioni vere e proprie con aneddoti personali. Non so mai quanto durerà. Ma pensi che una volta in Piemonte, a Ovada, ho tenuto un recital che doveva durare un’ora e quaranta ma finì dopo tre ore. Era estate, all’aperto, e la gente non se ne voleva più andare. Andammo a cena tardi, rimediai con il vostro ottimo vino».

Serve sempre mettersi sul piano dello spettatore?
«Certo, la lettura a voce alta deve tramandare anche le emozioni. Ci illudiamo di essere immortali, come gli accademici francesi. Ma bisogna sempre assecondare lo sgomento di chi non ha mai capito niente del canto di Ulisse».

E per il futuro, in questo contesto di crisi, restiamo ottimisti?
«Dobbiamo esserlo. Se trovassimo un modo miracoloso di trasformare in progetto politico la nostra speranza, vinceremmo le elezioni. Ma no, non ho molta voglia di provarci, quel mestiere\ non fa per me».Non crediate che il ruolo di divulgatore scientifico che lo vede protago­ni­sta da quasi trent’anni a “Elisir” sia la sua unica occupazione. Anzi: «Nasco e resto regista di teatro, punto. Il resto è connesso alla mia professione, ad esempio mi piace scrivere per i giornali: ho una rubrica sul Corriere del Mezzogiorno».

Michele Mirabella, il suo è un mix di competenze?
«Come deve essere. La divulgazione scientifica non la può fare il medico, se un dottore chiedesse a un collega cos’è la cistifellea, quello risponderebbe: “Dillo tu!”. La maieutica prevede che un finto tonto che sono io, che ha spiluccato libri di medicina, faccia domande. Ho anche trenta film all’attivo, non nascondo che avrei preferito più teatro ma guardando indietro trovo 67 titoli di prosa, 32 opere…».

Qual è il filo conduttore delle sue attività?
«È la cultura».

Come il tema dello spettacolo teatrale che ha portato a Ver­bania, in Piemonte.
«Ho una convinzione ferma: il “tramandar” (come dice Dan­te) versi in epoche in cui non era diffusa la scrittura, era compito pregiatissimo lasciato ai giullari con una parte corriva e comica, ma professionale. Anche Plautino e Aristofane furono fior di professionisti. Tramandare la pagina scritta è un’opera complessa. Purtrop­po la cultura moderna ha interpretato maluccio questa necessità. Ma i libri muoiono se non vengono tramandati».

E il teatro cosa può fare?
«Il teatro l’ha fatta franca perché quei testi li ha spettacolarizzati con la drammaturgia per il palcoscenico e con la regia che interpreta il pensiero dell’autore, oltre la spiccata gigioneria degli attori, categoria di cui sono parte e quindi faccio autocritica».

Come si tramandano i libri?
«Con la tecnica che alle Ele­mentari era “Domani a memoria”, un’ingiunzione difficile da capire per noi bambini. Ma come imparare una poesia a memoria se non si conosce la metrica? Spesso senti pagatissimi finti divulgatori leggere Dante senza rispetto per quella fatica improba, i 17.500 versi endecasillabi collegati da rime alternate. Lui fa così tanta fatica e noi roviniamo tutto?».

Si riferisce forse a Roberto Benigni?
«Non mi faccia entrare in polemiche. Ma la Società dantesca lo ha più volte diffidato… È vero che di “Divina Com­media” si è parlato molto negli ultimi anni. Ma è stata recitata male. L’ultimo divulgatore affidabile è stato il mio amico Vittorio Sermonti, allievo di Contini, che ha spiegato Dante in maniera elegante, moderna e soprattutto documentatissima! Nel rispetto scolastico del verso e della terribile insidia delle rime alternate. È quanto tento di fare anch’io a teatro. Gli svarioni e la sciatteria mistificano la poetica».

A cosa si riferisce?
«Nel “Convivio” e poi nella “Vita nuova”, quel “Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia” recitato male a tutti noi in Prima liceo aveva fatto pensare male… Così come va capito il dissidio di Alighieri verso la convinzione pregressa che deve superare nei confronti di Beatrice, irraggiungibile musa e mediatrice nel rapporto con Dio. Dalla lettura deve venir sempre fuori il senso dei versi. Non parliamo poi delle traduzioni shakespeariane, le prosodie noiosissime nei provini degli attori che io stesso da regista ho dovuto sottoporre a candidati innocenti».

Nel suo spettacolo cita anche Leopardi.
«Tento di non rendere noioso “L’infinito”, perché è complessissimo. Non faccio discorsi tecnici, mi muovo con umiltà. Ci sto lavorando da quasi 50 anni, dall’università, dove ebbi come maestro Mario Sansone e dove mi sono laureato su Pirandello. Leggo preferibilmente Dante perché sono partito dalle celebrazioni di due anni fa. Ma ci sono tanti aspetti anche comici come conseguenza di cattive recitazioni. Penso al Carducci di “San Martino” o di “Pianto antico”, al Pascoli di “Romagna” o “X agosto” e al Manzoni del “5 maggio” che è poesia straordinariamente po­lemica ma sempre recitata ma­lissimo e trasformata in nenia insopportabile. Oggi la lettura ad alta voce è stata soppiantata dal marasma delle tecnologie».

Il successo dei podcast è un segnale di speranza?
«Concordo, io per primo ho inciso un cd di letture. E nei podcast chi legge solitamente è molto bravo. Quindi sì, c’è speranza. Ovunque il mio spettacolo attira gente, non per il mio talento che metto al servizio, ma per la novità. Le persone dicono: “Come ha fatto a non pensarci prima!”. Dico cose semplici, riconoscendo l’autorità dell’estetica».

E per apprezzarla da dove bisogna partire?
«Bisogna aver letto Gramsci e quel pensiero non pedagogico o didattico ma filosofico, bisogna aver letto e tramandato molti libri. Io lo so perché ho un’ampia biblioteca e catalogandola mi sono reso conto che la metà dei libri non l’ho letta. Ma io dico: non ancora».

Eppure oggi i mercati richiedono culture specifiche…
«Ma le fonti sono tante: cinema, tv, radio, la musica… Pensi al prodigio di poter ascoltare “Le nozze di Figaro” (la mia ultima regia messa in scena a Catania). Da Guttenberg in poi quanta cultura è stata diffusa dai mezzi meccanici? Un tempo quelli come Cecco Angiolieri portavano avanti la tradizione orale. Oggi non ci sono scuse per i moderni: basta premere un dito su uno stupido computer per aprire la Divina Commedia».

Conosce Alba?
«Al teatro ci sono stato. E una leggenda di famiglia tramandata da mio padre dice che il nostro cognome si trova nei documenti antichi di Alba. Mi­rabella è nome svevo, niente di più facile. Mozart nacque a Salisburgo non lontano da Schloss Mirabell».

Come si sviluppa il suo spettacolo?
«Ho l’abitudine di intercalare le recitazioni vere e proprie con aneddoti personali. Non so mai quanto durerà. Ma pensi che una volta in Piemonte, a Ovada, ho tenuto un recital che doveva durare un’ora e quaranta ma finì dopo tre ore. Era estate, all’aperto, e la gente non se ne voleva più andare. Andammo a cena tardi, rimediai con il vostro ottimo vino».

Serve sempre mettersi sul piano dello spettatore?
«Certo, la lettura a voce alta deve tramandare anche le emozioni. Ci illudiamo di essere immortali, come gli accademici francesi. Ma bisogna sempre assecondare lo sgomento di chi non ha mai capito niente del canto di Ulisse».

E per il futuro, in questo contesto di crisi, restiamo ottimisti?
«Dobbiamo esserlo. Se trovassimo un modo miracoloso di trasformare in progetto politico la nostra speranza, vinceremmo le elezioni. Ma no, non ho molta voglia di provarci, quel mestiere\ non fa per me».

CHI È

Nato a Bitonto (Bari) il 7 luglio 1943, è regista, attore, conduttore televisivo e radiofonico oltre che autore televisivo. Ha una laurea in Lettere e Filosofia (cum laude) con uno studio di regia sul teatro di Pirandello e ha ricevuto, ad honorem, una laurea in Farmacia

COSA HA FATTO

Ha firmato la regia di oltre cinquanta spettacoli, anche come regista d’opera lirica. Ha recitato anche al fianco di Massimo Troisi in “Ricomincio da tre”, film del 1981

COSA FA

Prosegue la conduzione del programma di medicina “Elisir” su Rai Tre. Al “Maggiore” di Verbania ha appena messo in scena lo
spettacolo “Domani a memoria – Voi Ch’ascoltate in Rime Sparse il Suono” dedicato alla lettura di grandi autori

BaNNER
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