«Voglio provare a fare danza». Fu questo il regalo chiesto ai genitori per la promozione di quinta elementare. Perché Raffaele Morra, danzatore e maître de ballet di una delle più celebri compagnie nel mondo, Les Ballets Trockadero de Montecarlo, di New York (a Milano a metà aprile), già all’asilo si disegnava «con le gambe in alto». Invece le ha sempre avute molto ben piantate a terra, o almeno quanto basta per imparare a volare, per spiccare il volo senza cadere. Un volo che decolla da Fossano e atterra a New York, con tante soste nel mezzo, tanti decolli, tanti atterraggi. A dispetto di chi lo metteva in guardia dal troppo sognare perché «tu sei di Fossano e non potrai mai fare il ballerino». E quindi sogna pure, ma sogna poco.
Raffaele, è mai possibile economizzare sui sogni?
«No, io non l’ho fatto. Anche grazie ai miei primi insegnanti e ai genitori che mi hanno insegnato a combattere per quello che volevo fare».
Chi remava contro?
«Non remavano contro ma non tutti gli amici mi incoraggiavano. Ora mi dicono che crescere con me non è stato facile».
Riandiamo agli esordi.
«Ho cominciato con la scuola di Myrta e Marcelo Aulicio, a Fossano, un’esperienza importantissima perché mi ha trasmesso la passione per il mestiere e l’idea che la danza sia uno stile di vita. Loro vivevano per le loro scuole e per la danza, a 360 gradi».
E poi?
«E poi è arrivato il centro di perfezionamento di Torino, al Teatro Nuovo, l’accademia regionale di danza, il diploma e l’ingresso in compagnia».
Nel 2000 ha incrociato Raffaele Paganini e Lindsay Kemp, ma tutto questo non le è bastato.
«Ho sempre bisogno di stimoli nuovi. Ma penso anche che il cambiamento debba avvenire se ne vale davvero la pena. A me interessava fare esperienze diverse e quando, al festival Torino Danza, ho conosciuto Les Ballets Trockadero de Montecarlo, sono stato sedotto e mi sono detto “per loro varrebbe la pena trasferirsi”».
È vero che non sapeva nemmeno che fossero di New York?
«Sì, è vero. Ma non è stato un deterrente, mi sono trasferito a New York e ancora sono lì».
Ci racconti un po’ di questa compagnia.
«È nata nel 1974 nei teatri Off Off Broadway come gruppo alternativo, poi dal 2004, con l’esibizione al Bolshoi di Mosca, la compagnia è stata accreditata a livello internazionale».
Sì, ma ci dica perché si tratta di un gruppo alternativo.
«L’originalità sta nel fare parodia del balletto classico. La compagnia è tutta composta da danzatori maschi che ballano sulle punte interpretando anche i ruoli femminili. Ma non è la componente del travestitismo a fare la parodia. Un ballerino vestito da donna può far ridere per tre minuti poi perde la comicità e per richiamare l’attenzione del pubblico la parodia deve essere del gesto, attraverso l’esagerazione di caratteri, l’eccesso. Bisogna individuare gli atteggiamenti tipici della danza ed esasperarli».
Pensando al training, il lavoro sulle punte per un danzatore è la vera novità.
«Si è capito che la punta è uno strumento che aiuta a irrobustire le caviglie, un po’ come un attrezzo. L’idea che le punte siano prerogativa della ballerina eterea è un luogo comune».
Come vi accostate al repertorio classico consolidato?
«Cerchiamo di ritrovare lo spirito originario di ogni balletto, di riproporli come quando erano una novità».
Ma non è un paradosso unire intento filologico ed esasperazione dei caratteri?
«No, anzi, è proprio quello che manca nella danza adesso. Ora la tecnica è esasperata ma manca l’aura. Noi esasperiamo quelle caratteristiche per cui le ballerine erano tali tutto il giorno e quando le vedevi per strada le riconoscevi. Carla Fracci è stata l’ultima in questo senso».
Le vicende per le quali vi chiamate “di Montecarlo” ma siete di stanza a NY sono frastagliate ma risalgono all’eredità di Djagilev e dei balletti russi. Cosa vi accomuna a quel periodo?
«Tante cose ma la più importante è che noi non aspettiamo che la gente venga a noi ma noi andiamo verso la gente, non solo in grandi teatri e grandi città. Siamo un po’ dei circensi».
È vero che avete tutti un nome d’arte russo?
«Più che russi, sono nomi che suonano come russi, ma sono scherzi che rafforzano la parodia. Come quando, prima dello spettacolo, si annuncia con l’accento russo la sostituzione di un ballerino e il pubblico ride. È un modo per creare una disposizione umorale, per introdurre il fatto che si potrà ridere. All’epoca dei balletti russi, se non eri russo non potevi fare il ballerino».
Torniamo in Italia: com’è stato l’incontro con Paganini, l’altro Raffaele della danza?
«È un artista che non si tiene la danza per sé ma ha la passione di trasmettere. Dava consigli e li motivava. I grandi sono così. E ne avremo sempre meno. Oggi si fa una grande confusione tra personalità ed egocentrismo».
Cos’è successo?
«Mah, il bisogno di essere accettati per quello che siamo si confonde con la paura di essere messi in discussione così suggerimenti importanti vengono equivocati o rifiutati. La danza, dal punto di vista della conformazione fisica, è “contro natura”, l’en dehors, la tipica posizione di rotazione esterna dell’anca, non è naturale. E oggi la cultura è quella del “non faccio più di quel che è naturale, si arriva laddove si può”».
Succede di litigare per un ruolo?
«Nel nostro corpo di ballo ci sono sempre state tante personalità diverse e c’è la possibilità di esprimersi anche individualmente. Non è un unicum e l’equilibrio si realizza se capisci quando è il momento di mettere sé stessi a disposizione del gruppo».
Nel 2017 ha smesso di ballare ed è passato dall’altra parte diventando insegnante, maître de ballet, per la precisione. Perché?
«Insegno dal 2015 e per due anni ho insegnato e ballato. Ma ho 47 anni e so che non si possono fare bene entrambe le cose. Inoltre ho sempre creduto che si possano incominciare nuove esperienze quando hai ancora energia. Io volevo già “riciclarmi” a 40 anni».
Non le manca ballare?
«Nemmeno un po’, volevo fare l’insegnante di danza fin da piccolo».
E com’è Raffaele insegnante?
«Vecchio stile. Anche se in America è tutto politically correct e bisogna chiedere “posso correggerti?”. Allora bisogna imbellettare i suggerimenti prima di correggere».
Torna volentieri a Fossano?
«Sì e soprattutto adesso che torno più raramente di quando vivevo a Torino. Ci sono le mie radici e mi aiuta a tornare umano ma anche a capire perché me ne sono andato».
Perché?
«Perché qui per l’arte e lo spettacolo non si investe, non c’è lungimiranza. Si guarda al teatro come a un supermercato in cerca di un tornaconto immediato».