È appena uscito “Angel of Alta Langa”, un romanzo ambientato tra le Langhe non ancora famose e l’aspra Alta Langa nel periodo drammatico che va dalla conclusione della Prima Guerra Mondiale, attraversa il Fascismo e raggiunge la fine del secondo conflitto. Seguendo le intricate vicende di Sara, Doretta e Cornelia ci si immerge in un territorio di cui la scrittrice americana Suzanne Hoffman conosce non solo la geografia, ma anche l’indole, il sentire e perfino il dialetto. Come sia riuscita dal lontano Colorado a scrivere queste pagine così precise è difficile da immaginare. Quando, però, si vede Suzanne incontrare dal vivo le famiglie del vino di cui ha narrato nel suo primo lavoro, “Labor of Love”, che la stringono come una di famiglia, si capisce la grande connessione che le ha permesso di riportare nel suo nuovo romanzo (già disponibile su Amazon, in inglese) tante “nuances” che solo un vero “insider” poteva vedere.
Suzanne, lei frequenta il Piemonte da molti anni, perché un libro sull’Alta Langa proprio ora?
«Durante il lockdown ho capito che sarei stata lontana dalle mie amate Langhe per molto e, allo stesso tempo, sapevo di avere in serbo molte storie che avrebbero potuto essere un’ottima ispirazione per un romanzo ambientato su queste colline. Era il momento perfetto. La missione del mio libro, che è in gran parte finzione ovviamente, è anche ricordare la storia di questa terra, specie in un momento in cui qualcuno cerca di negarla. Conoscere la storia è l’unico modo che abbiamo per progettare il nostro futuro, come ricorda la citazione del produttore Giacomo Oddero all’inizio del mio libro».
È stato difficile scrivere da così lontano?
«Una delle imprese più faticose che abbia affrontato nella mia vita; mi svegliavo di notte pensando ai personaggi, all’avanzare della trama, a cosa avrebbero detto in quella occasione. In più, a causa della pandemia, era quasi impossibile trovare i libri per le mie ricerche, per cui mi sono basata molto sull’aiuto dei miei amici che vivevano in loco. Sono stati i miei occhi».
Ci racconta qualcosa della trama?
«Si tratta di una saga famigliare con protagoniste figure di donne forti e coraggiose, in un periodo storico che va dal 1918 fino al 1946. Ovviamente non mancano anche gli uomini valorosi, i colpi di scena, gli atti di coraggio».
Come ha fatto a essere così vicina al modo di sentire piemontese?
«Quando sono arrivata nel vostro territorio per la prima volta, nel 1999, ho avuto la fortuna di incontrare una persona neozelandese, Jeffrey Chilcott, che viveva qua, appassionata di vini, la quale mi ha permesso di incontrare molti degli uomini e donne che hanno vissuto nelle Langhe nel periodo storico descritto nel romanzo. Ho sentito da subito una grande affinità con loro e fin dal primo momento ho pensato che queste storie non potessero andare perse. È curioso che un neozelandese sia stato la mia preziosa guida nel vino piemontese, ma mentre costruivo i miei personaggi pensavo a che cosa avrebbero detto o fatto proprio quei viticoltori che avevo incontrato tanti anni prima in vigna o in cantina. Sono tornata qui spesso e ho visto le Langhe crescere e cambiare».
Da lontano si vede meglio?
«Forse. Angelo Gaja alla presentazione del mio primo libro dedicato alle famiglie del vino mi chiese: “Come è possibile che un’americana abbia scritto un libro che avremmo dovuto invece scrivere noi?”. In realtà credo sia difficile vedere quello che succede sotto i propri occhi. Questa è una terra generosa che ha lottato strenuamente per quello che ha ottenuto per cui ho sentito forte la necessità di narrarla come merita».
Come è stato tornare in Piemonte?
«Appena arrivata a Barbaresco, ho raggiunto la cappella di San Teobaldo, nel cru Asili, dove si svolgono diverse vicende del romanzo e lì mi sono commossa a vedere finalmente dal vivo quelle vigne che ho percorso nella mia mente per tanti mesi».
I suoi protagonisti hanno tratti di persone che abitano qui…
«Sì, i personaggi sono un mix di persone italiane che conosco. Sara, la protagonista, ad esempio, è una donna forte, volitiva, energica come molte donne del vino di Langa. Solo un personaggio è ispirato al cento per cento a Giulio Grasso dell’azienda “Ca’ del Baio” di Treiso, un vignaiolo forte e gentile che stimo molto. Ho preso spunto dalle vicende della sua famiglia per sviluppare anche alcuni tratti della trama. Ma la vera scintilla che ha acceso in me il desiderio di raccontare gli anni della guerra nelle Langhe è stata l’eroico gesto di Demetrio e Rina Veglio che a Bossolasco hanno protetto, con l’aiuto di tutto il paese, diverse famiglie ebree durante la seconda guerra mondiale».
E come vede i cambiamenti in atto oggi?
«Molte delle evoluzioni hanno portato a risultati straordinari in termini di visibilità di questo territorio e di riconoscimento al lavoro dei produttori nelle vigne e in cantina. D’altra parte, però, potrebbe esistere il rischio che le nuove generazioni siano troppo occupate a seguire i mercati esteri o il marketing e perdano così il contatto con la terra, giorno dopo giorno. Che si allontanino cioè proprio da quella connessione che ha permesso la rinascita strepitosa dopo gli anni difficili delle guerre».
Che cosa si augura possa suscitare il suo libro?
«Un desiderio di imparare dalla storia, dalle vicende terribili e dagli atti di enorme generosità che ne sono derivati».