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«Prendere posizione è fondamentale, ora come allora»

Nel suo romanzo d’esordio la torinese Martina Merletti parte da un dato di realtà storica per costruire un racconto che parla in modo doverso a ogni lettore

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Un certo qual nu­mero di aspiranti scrittori riesce, in un modo o nell’altro, nell’intento di pubblicare un proprio romanzo; alcuni sono pure scritti bene; in pochi casi, però, una scrittura degna si associa a una trama che permetta di sviluppare al meglio il racconto.
La torinese Martina Merletti ci è riuscita già con il proprio romanzo d’esordio, “Ciò che nel silenzio non tace” edito, aspetto tutt’altro che secondario, da Einaudi. La trama mette il lettore sulle tracce di un neonato fatto uscire dal carcere “Le Nuove” di Torino, dove è imprigionata la madre durante la Seconda Guerra Mon­diale, per sfuggire a morte certa.

Ricostruendo quella vicenda la scrittrice ripercorre la Storia, ma anche le storie di chi intorno a quel fatto ha visto modificato il proprio destino. Un libro che merita di essere letto e, ancora prima, una scrittrice che vale la pena conoscere meglio. Obiettivo che IDEA ha cercato di raggiungere con questa intervista.

Martina, una delle prime occasioni pubbliche in cui ha parlato del suo romanzo è stata quella al Circolo dei lettori di Torino, in dialogo con Donatella Di Pietrantonio, tra le più note e amate scrittrici italiane contemporanee, finalista del Premio Strega. C’è grande fiducia nel suo libro…

«Spero di sì! Ho una stima im­mensa della scrittura di Do­na­tella Di Pietrantonio e il suo è il battesimo migliore che potessi sperare. Penso spes­­so a come sarebbe stato bel­lo essere insieme al Cir­co­lo…»

In effetti, un esordio senza incontrare dal vivo i lettori de­­ve essere complicato… Ha avuto modo di ricevere co­munque riscontri per il romanzo?
«Un lettore mi ha lasciato in libreria una lettera che riportava dei passaggi del libro, commentandoli e dicendo cosa avevano suscitato in lui; mi ha colpito molto: leggevo quasi come se non li avessi scritti io, me li stava restituendo con occhi diversi dai miei, dandomi la possibilità di vedere quello che ho fatto da una distanza che me lo ha fatto apprezzare di più. Mi ha poi consigliato delle letture senza pretendere risposta e senza traccia di quel senso di invasione che invece di solito generano i contatti sui social. Per mia “forma mentis” trovo i social molto faticosi, ma ho scoperto che possono essere anche molto soddisfacenti».

In che modo?
«Sto constatando che tramite i social le persone si aprono molto, forse più di quanto avrebbero fatto in presenza. Ci sono persone che mi scrivono delle loro esperienze, raccontando di conoscenti e parenti torturati e uccisi alle Nuove, o di quando facevano la strada da scuola al Mon­te dei Cappuccini sotto i bombardamenti… Mi dicono mol­to e mi chiedo se di persona sarebbe stato lo stesso…».
Come è passata dalla laurea in Tecnologie e scienze a­grarie alla narrativa?
«Credo che le due passioni siano emerse molto precocemente e insieme, procedendo su binari paralleli. Ho iniziato a leggere e a scrivere molto presto, ma quando mi chiedevano cosa volessi fare da gran­de rispondevo “Lilli Gruber” o “la batterista di Gianna Nannini”. Non ho mai detto “la scrittrice”, perché era come rispondere “mangiare”, una cosa indispensabile, normale, che facevo punto e basta. La stessa cosa valeva per la mia attenzione verso il mondo naturale. Sono due aspetti che sono emersi da subito e poi si sono incontrati in molte mie letture; per me le due cose si intrecciavano benissimo, anche se nella pratica restavano separate».

E poi c’è stata la Scuola Holden…
«Ho fatto il test di nascosto e l’ho rivelato ai miei genitori solo dopo averlo superato, mettendoli di fronte al fatto compiuto. Così abbiamo trovato un accordo: avrei lavorato per pagare parte della retta senza rinunciare all’Univer­sità e loro mi avrebbero dato un aiuto economico. La Holden è stata importante perché mi ha fatto capire che scrivere è un mestiere, che potevo dedicarmici in maniera artigianale».

Per scrivere questa storia è partita da una sua esperienza personale (la visita nel 2015 al carcere Le Nuove) e poi da lì ha costruito la storia. Avere come punto di partenza un dato reale è un tratto distintivo della sua scrittura?
«Trovo sostegno e conforto nell’appoggiarmi a dati di realtà, nel mettere la scrittura al servizio di qualcosa che raccolgo. Anche perché sono molto spaventata dal rischio di parlarmi addosso: è una cosa che da lettrice detesto, dunque ho il terrore di poterlo fare da autrice».

Sullo sfondo del romanzo c’è anche una storia lesbica ma non è la natura della relazione a darle valore narrativo. È cosa ancora piuttosto inusuale, non le pare?

«È esattamente quello che speravo emergesse. Per me era fondamentale parlare di cose che conoscevo, mi sono spezzettata e ho messo parti di me in Teresa, in Aila e in tanti altri personaggi… Credo che per ogni tipo di minoranza, non solo quella Lgbt, sia importante riuscire ad avere questo tipo di narrazione. Ad un certo punto l’esperienza diventa normale, le narrazioni in cui ti puoi rispecchiare si moltiplicano, non devi per forza andarti a cercare il film a tematica omosessuale!»

Al contempo è una forte presa di posizione.

«Forse in un paese che fa fatica ad approvare il DDL Zan, sì, lo è. Risponde alla necessità di non nascondersi dietro a un dito. In relazione al romanzo il rischio di ridurne la dimensione politica al passato c’è, mentre vorrei che questa storia fosse uno spunto di riflessione e discussione per parlare del presente. La volontà e necessità di prendere posizione è fondamentale nella mia storia ed è forse il tratto che più la avvicina alla contemporaneità».