«Dobbiamo immaginare un mondo del tutto nuovo»

Il segretario della Uil cuneese Armando Dagna indica come via d’uscita dalla crisi i progetti volti allo sviluppo ecosostenibile

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Che sia per i tanti anni di lavoro trascorsi in fabbrica o per l’essere nato a pochi passi dalla casa di Cesare Pavese, a Santo Stefano Belbo, sta di fatto che secondo Ar­mando Dagna, segretario della Uil cuneese dal 2016, «lavorare stanca» per davvero. Per questo, e per i tanti segnali che la crisi pandemica ha mandato, occorrono profonde riflessioni e cambiamenti anche nella no­stra zona: una terra che, dice il sindacalista, sembra aver in parte «smarrito quella sapienza del fare che ha sempre contraddistinto le generazioni precedenti».

Segretario Dagna, questa emergenza, al di là del dramma umano e sociale, sembra offrire l’occasione per ridiscutere l’assetto economico dei nostri territori. Da dove occorre ripartire?
«Prima di tutto, valorizzando le tante realtà che promuovono uno sviluppo in sinergia con l’ambiente, prospettando strade di crescita che si dimostrino attente alle dinamiche naturali: penso a un modello, per capirci, come Slow Food. Detto questo, i grossi problemi del Cuneese sono fondamentalmente due, che riguardano le infrastrutture. Da un lato, quelle materiali; dall’altro, quelle immateriali. Dobbiamo certamente cominciare a scommettere sui collegamenti e le vie di comunicazione: ma sarà fondamentale avere cura anche dei collegamenti “virtuali”, dando impulso alla banda larga e incentivando la filiera dell’economia digitale. Non dimentichiamo che la nostra provincia vale il 14% dell’economia piemontese, senza pensare al capitale di immagine di cui disponiamo».

Anche il Covid sembra dirci che le nostre scelte devono necessariamente tenere conto dell’impatto ambientale. Da quale prospettiva dobbiamo guardare le politiche di sviluppo?

«Bisogna indubbiamente im­maginare un mondo nuovo: è evidente che il percorso seguito fino a qui non sia più compatibile con l’ecosistema. Ciò non vuol dire, d’altro canto, abbracciare l’ottica della “decrescita felice”; al contrario, l’obiettivo deve essere un modello leggero, in armonia con il nostro am­biente, che guardi al lungo termine e non solo a massimizzare il ritorno economico nel minor tempo possibile, soprattutto in territori come il nostro dove la natura è ancora capace di mo­strare tutta la sua forza e, al contempo, come ha messo in luce la recente alluvione, la sua fragilità».

Pensa che il Cuneese sia capace di reggere l’urto e ripartire?

«Facciamo un passo indietro. Quando scoppiò la crisi finanziaria del 2008, il nostro tessuto produttivo diede una buona prova di resistenza, in particolare nei settori dell’economia di prossimità. Ciò derivò principalmente dal fatto che le nostre microimprese, l’ossatura produttiva della provincia, erano meno legate alle dinamiche finanziarie globali. Questo, oggi, non sta avvenendo».

Vuol dire che quel paradigma ha fatto il suo tempo?

«Non esattamente. I settori del manifatturiero e dei servizi sono andati in crisi, al di là delle motivazioni più evidenti, perché negli anni, spesso, hanno fatto “outsourcing”, appaltando parte dei processi produttivi a realtà esterne in cui il lavoro viene generalmente svilito, sia in termini economici che dal punto di vista dei diritti. Questa sorta di “delocalizzazione” verso il piccolo ha reso meno solidi quei mondi e soprattutto più deboli i lavoratori. Occorre quindi provare a dare anche agli spazi della piccola e media impresa un sistema di “welfare” e di garanzie che sia capace di conservare i tanti elementi positivi che rendono vitale il nostro territorio».

Lei faceva riferimento, in partenza, a una perdita di sapienza lavorativa storica. Abbiamo ancora un capitale umano in grado di essere altamente competitivo?
«Intanto, la lotta alla pandemia è tutta sulle spalle dei lavoratori: il nostro primo pensiero, adesso, deve essere la messa in sicurezza dei tanti, dai medici ai cassieri dei supermercati, che stanno affrontando questa sfi­da. Detto questo, ci sono sicuramente enormi “giacimenti” di competenze umane non utilizzati; ma per valorizzarli dobbiamo uscire dallo schema che vede il profitto come unico indicatore e investire massicciamente su giovani e donne. Un altro punto importante in cui, come sindacato, crediamo fortemente è un processo di formazione continua per i lavoratori, che sia capace di garantire la sopravvivenza economica anche di fronte a situazioni drammatiche come questa».

Su cosa state lavorando, concretamente, con i vostri 18mila iscritti sul territorio?

«Noi rappresentiamo principalmente occupati del settore agroalimentare e dell’ambito dei servizi. La nostra sfida per il prossimo futuro, insieme a quelle più urgenti che la crisi ci impone, sarà lanciare un progetto per i lavoratori precari e per il mondo dell’artigianato. L’idea è quella di arrivare a nuove, innovative, forme organizzative che possano sostenere quelle realtà che sono in grande sofferenza».