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«Cos’è la trap? Una cultura, non solo musica»

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«La trap non è una musica, ma una cultura e va riconosciuta in quan­­­to tale. La musica è un aspetto, forse il principale, tra quelli che caratterizzano a livello artistico questa cultura, ma non l’unico. Ci sono anche la moda, il tipo di consumi, il linguaggio, lo stile». Parola di Andrea Ber­tolucci, giovane giornalista milanese esperto musicale che sulla trap ha appena scritto un libro, “Trap Game. I sei comandamenti del nuovo hip hop”; un lavoro che ha attirato l’attenzione dei media nazionali; uno strumento ottimo per addentrarsi nel mondo appannaggio dei giovanissimi e andare oltre una semplicistica definizione del trap come di una “rap più cantato”.

Andrea, che periodo è questo per la trap?

«C’è “hype” (aspettativa, ndr), si sta parlando molto a livello nazionale, e credo che l’interesse per la trap sia sempre più trasversale: prende sia i giovanissimi, perché è il genere che masticano di più, ma c’è interesse morboso da parte dei “boomers” (persone nate tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e la metà degli anni ‘60, ndr) e io voglio trasformare questa morbosità in informazione».

Cosa è ancora poco compreso del mondo della trap?
«Uno degli errori è il pensare a questa cultura come qualcosa di unitario, invece è molto più sfaccettata. Negli anni ha avuto una capacità incredibile di me­scolarsi e nascondersi in ge­neri anche esterni. Noi parliamo di una cultura, ma contemporaneamente stiamo parlando di tanti mondi sia a livello geografico, che culturale e sociale. È un fenomeno molto più complesso. Non ha aiutato molto il racconto mediatico che è stato fatto in questi anni, in cui quello della trap è stato dipinto come un mondo di pazzi criminali che parlano di droga. In­ve­ce, è qualcosa che va ben oltre questo. I vari detrattori, gli stessi che le davano 3-4 anni di vita, hanno preso a puntare il dito sulla considerazione negativa della donna nella musica trap. C’è un’attitudine tipicamente maschilista, ma è un contorno, una scorza, perché se andiamo a vedere la sostanza, si dà molto più spazio alla figura della donna rispetto a quanto facevano altre scene precedenti. La figura del “trapper” è molto legata alla mamma, c’è quasi un’ossessione per la figura materna».

C’è chi dice che il mondo rap/ trap sia l’equivalente del mondo cantautorale degli anni ’70. Che ne pensa?

«Sono d’accordo, ma non totalmente. Colgo diverse similitudini, a cominciare da quelle geo­grafiche: sia la trap che la scena cantautorale hanno delle microscene geografiche: c’è la scuola genovese, quella milanese, quella napoletana. Non è un caso che Genova sia la città di De André e Tenco, ma anche Tedua, Izi e tanti “trapper” famosi a livello nazionale. Poi c’è una profonda attitudine “street”, quella “street credibility” (da leggersi come “appartenenza alla strada”, ndr), che non c’è solo nella scena trap, ma anche in quella cantautorale. Una terza similitudine è la capacità di andare fuori dagli schemi stilistici imposti precedentemente. Quando Guccini propose l’Avvelenata, fece qualcosa che andava fuori dai confini che aveva avuto sino ad allora la musica cantautorale, come fa la trap. Una grossa differenza è che, a parte pochi esempi singoli, nella trap manca quell’attitudine politica che nella scena cantautorale è centrale».

La trap, però, non riesce ad aprire di­bat­titi nella società…
«In Italia la trap non è assurta a cultura. C’è ancora un po’ di puzza sotto il naso, di snobismo. Ci vorrà qualche anno per storicizzarla a livello culturale. In America è diverso: ci sono già alcuni artisti e album che avviano dibattiti culturali».

Per spiegarla a chi non ha idea di cosa sia, si può dire che dove c’è autotune (uno strumento usato per creare un particolare suono a quasi “robotico” della voce, ndr) c’è trap?
«Non tutto ciò che è “autotune” è trap, basti pensare a Cher che negli anni ’90 lo usava in “I be­lieve”. L’“autotune”, ormai è s­do­­ga­nato e lo usano in molti».

Immagina un futuro trasversale per la trap?
«Ci sono artisti come Te­dua e Izi con un pubblico che si avvicina al mondo universitario e poi ci sono scene emergenti come Zona 7, che sono seguiti da 14-15-16enni. Come avviene nel pop, per cui ci sono gli irriducibili degli 883 degli anni ’90 e c’è chi ascolta Elodie, anche per la trap ci saranno convivenze del genere».

BaNNER
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