«Gli operatori di Verduno sono stati fantastici»

L'avvocato Morra guarito dal Covid

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«Non è una me­raviglia que­­­sta leg­ge­­­­­rez­za? Non sem­­­­­­b­ra davvero un antidoto alla pie­trificazione del mondo e alla sua opacizzazione?». Potrà sembrare strano, ma abbiamo scelto di usa­re le parole di Italo Calvino per tratteggiare la storia e l’esperienza di PierMario Morra, avvocato di Santa Vittoria d’Alba colpito dal Covid-19, oggi fortunatamente tornato alla normale quotidianità, che in questa toccante testimonianza ri­percorre paure ed emozioni provate in un momento della sua vita che lo ha segnato, ma anche rafforzato. «La pri­ma sintomatologia ma­nife­stata», racconta Morra, «è sta­ta una stanchezza anomala, ac­com­­pa­g­nata da dolori agli arti inferiori. Que­ste avvisaglie mi hanno mes­­so in allarme. La settimana pre­­­ce­den­te ero stato per lavoro in Cam­pa­nia e Veneto; avevo viag­­giato in aereo e inizialmente ho interpretato questi sintomi come fisiologica stanchezza la­vorativa, ma quando sono ap­parse febbre e tosse sec­ca ho im­mediatamente chiamato la mia dottoressa di famiglia, ho interloquito con altri spe­cialisti miei amici e tutti, unanimemente, mi hanno consigliato di eseguire il tampone; tampone che ha poi, pur­troppo, ac­certato la mia positività al coronavirus».

Cos’ha fatto, allora?
«Mi sono isolato in casa, assistito e monitorato con grande professionalità dall’Usca (Unità speciale di continuità assi­sten­ziale, che svolge attività domiciliari per i pazienti Covid-19, ndr) e ho co­minciato a verificare l’ossigenazione del sangue con il saturimetro, uno strumento davvero fondamentale per comprendere l’avan­zamento del virus. Grazie, infatti, ai valori registrati dal di­spositivo ho compreso di essere passato dall’affaticamento re­spi­ratorio a una criticità dell’ossigenazione, che mi ha indotto in desaturazione. E anche in que­­­sto caso prezioso è stato l’intervento dell’U­sca che, dopo un’attenta e scrupolosa visita, ha decretato ne­cessario il mio ricovero in ospedale».

E la sua famiglia, di cui fa parte anche il piccolo Alessandro, co­me ha reagito alla notizia?

«In quel momento eravamo comprensibilmente agitati, ma an­­che in quel frangente i medici si sono dimostrati di una profonda umanità, rassicurandomi e gestendo la situazione senza ge­nerare allarmismi. Mi hanno chie­sto di preparare una borsa, di usci­re con loro e salutare mia mo­glie e mio figlio, tranquillizandoli che sa­rei tornato a casa presto…».

Lei è stato ricoverato presso l’ospedale “Michele e Pietro Fer­rero” di Verduno. Come le è parsa la struttura?
«Straordinaria, in ogni àmbito: dal pronto soccorso, dove ven­go­no eseguite le operazioni di “screening” e “triage”, e dove mi hanno immediatamente ef­fet­tua­­­to i raggi ai polmoni, oltre a un prelievo arterioso; lo stesso vale per gli altri reparti, come quello di terapia sub-intensiva, dove sono stato ricoverato e cu­rato con immediato trattamento di ossigenoterapia, mo­ni­to­rato con saturimetro e altre strumentazioni in grado di vigilare gli altri parametri vitali. So­no sempre stato cosciente, seppur con diagnosi di polmonite da Covid con insufficienza re­spiratoria di tipo 1, diagnosticatami dalla straordinaria dottoressa Elena Nicola, alla quale il mio “grazie” è davvero sentito e profondo. Ho percepito nel cor­so del mio ricovero ospedaliero, la competenza di tutto il team che opera nel nosocomio; a partire dai medici e dagli infermieri e passando per assistenti e Oss, tante professionalità che lavorano nei reparti con turni micidiali: tanta sensibilità, unita a un al­truismo vero, concreto e, so­prat­tutto, capace di regalare quella dose di umanità che fa bene al cuore e alla mente. Sen­za dimenticare una grande capacità professionale che ha reso le cure a ciascuno di noi ricoverato personalizzate, sempre confacenti alle linee guida, ai protocolli, alle procedure e alle istruzioni operative. Strumenti indispensabili per la corretta riuscita delle cure e dell’azione assistenziale».

Oggi che è guarito cosa le rimane di questa esperienza?
«Senza dubbio la riconoscenza, la stima e l’affetto nei confronti di chi mi ha aiutato e ha colto la necessità di intervenire tempestivamente per debellare questo micidiale virus, assolutamente da non sottovalutare perché colpisce a ogni età. Con me era ricoverato un ragazzo nel 1992. E questo deve farci riflettere e, soprattutto, farci comprendere che nessuno può ritenersi im­mune e inattaccabile. Perché il Covid è un avversario subdolo e sottovalutarlo sarebbe un errore imperdonabile. Indro Montanel­li diceva che nella vita ci sono “gli errori che sanno di bucato e quelli che sanno di fogna”. Eb­bene, sottovalutare il coronavirus è senza dubbio un errore che sa di fogna…».

Non si è mai sentito solo?
«Ho convissuto con una formula “strana” di solitudine. Gli strumenti tecnologici danno la possibilità di parlare e vedere i familiari. Io ero sempre in con­tatto con mia moglie De­bora, mio figlio Ales­sandro, entrambi positivi e in isolamento domiciliare. Ho temuto che Alessandro po­tes­se vivere questo momento con ansia e apprensione e, allora, in queste settimane, ho cercato di liberare la mente tornando a leggere due opere che mi re­galano emozioni: “Fin­zio­ni” di Jorge Luis Borges e “Aspe­t­tan­do Godot” di Samuel Beckett. Mi sono servite a superare giornate lunghissime che, assicuro, tornano ad avere significato quando vedi la luce in fondo al tunnel».

Che sensazione ha provato ap­pena lasciato l’ospedale?

«Un senso di profonda liberazione, di grande leggerezza… difficile da trasmettere con le parole».

È rimasta qualche paura?
«Faccio mia una grande verità di Italo Calvino: “Prendete la vita con leggerezza, ché leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere ma­cigni sul cuore”. Ecco, questo è quello che auguro a me stesso, alla mia famiglia e, in generale, a tutti coloro i quali hanno vissuto la mia stessa esperienza. Impegnarsi nella profonda convinzione di non dare peso all’inessenziale».