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«Vi racconto il Mind, ponte per il futuro»

Stefano Minini è l’ingegnere braidese che progetta il recupero dell’Expo Milano 2015

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Stefano Minini, ingegnere di origine braidese con all’attivo un’impressionante e­sperienza internazionale, sarà in prima linea per le fasi salienti della riqualificazione dell’ex area Expo Milano.

Grazie alla concessione accordata al colosso australiano “Lendlease”, la creazione del nuovo polo Mind (Milano innovation district) nelle strutture che un tempo o­spitavano l’Expo 2015, diventerà presto realtà, portando così a compimento una riqualificazione che interesserà, in un ecosistema sinergico, aziende, infrastrutture e ambiente.

Si trat­ta di un e­sempio innovativo di “knowledge hub”, qualcosa di più di un parco scientifico, come spiega Stefano Minini a IDEA.

L’aver raggiunto questo significativo traguardo è frutto di scelte lavorative coraggiose e prima an­cora, di determinazione du­rante gli anni di studio. Che ri­cordi ha di quel periodo?
«Sono andato via da casa presto, a diciannove anni, per trasferirmi a Roma e studiare al Col­legio universitario dei Ca­va­lieri del lavoro. Fre­quen­tando l’Alta scuola politecnica ho poi vissuto tra To­rino e Mi­lano, senza farmi mancare un intenso periodo di “Erasmus” a Delft, in Olanda.

In quegli anni, entrando in contatto con ingegneri, architetti e designer ho ampliato la mia visione del lavoro in “team” ag­giungendo importanti tasselli alla mia formazione ingegneristica. Un’ottima occasione è stata la partecipazione alla progettazione degli aeroporti di Ber­ga­mo e Pisa grazie alla quale ho approfondito la mia specializzazione nello sviluppo di grandi infrastrutture».

In concreto di che cosa si tratta?
«Si tratta di preoccuparsi non solo degli aspetti tecnici e ingegneristici di un progetto di enormi dimensioni come un aeroporto o una ferrovia ma an­che di curarne l’impatto economico, sociale e ambientale sul territorio. Si va dall’allocazione di grandi ca­pitali pubblici e privati, alla crea­­zione del­la nuo­va lo­gistica fi­no al­la ri­caduta sul­la vita della popolazione che vive ogni giorno in quelle aree».

Mi fa un esempio?
«In Inghilterra ho lavorato allo sviluppo di una ferrovia ad alta velocità. Questo progetto a­ve­va una valenza strategica paragonabile alla “Asti-Cuneo” nel­la nostra zona, per cui si trattava di un tema molto controverso.

Come spesso accade, pensiamo anche alla Tav a esempio, scendere sul territorio con un’opera di queste dimensioni è un’operazione estremamente delicata perché spesso si creano due fazioni contrapposte, su posizioni estreme, e si complica o­gni possibilità di dialogo co­struttivo. Il nostro lavoro è stato in­centrato su un’integrazione e un’ottimizzazione del­le strutture della ferrovia con l’intera realtà circostante».

Una serie di esperienze lavorative intense per un giovane ingegnere…
«Sì, ma la vita non è solo lavoro. Il motivo per cui mi sono ri­trovato a Londra è che avevo in­seguito una fidanzata, con il pensiero di restare sei mesi e perfezionare l’inglese. Alla fi­ne ho vissuto lì sei anni, lavorando in campi diversi. Ho perfino consegnato le pizze a do­mi­cilio in bicicletta ed è stato un bagno di umiltà utilissimo».

Dopo l’Inghilterra?
«Sono stato richiamato in Italia per una consulenza strategica ri­guardante, tra le altre mansioni, la parte finanziaria dei treni Frecciarossa».

E ora il Mind a Milano.
«Sì, sono tornato vicino a casa. È arrivata questa offerta nel momento ideale, sono contento di poter essere più presente con la mia famiglia».

Ci racconta questa sfida più nel dettaglio?
«Quello che stiamo progettando è qualcosa di più di un parco tecnologico, si tratta di un vero e proprio pezzo di cit­tà che parte dalle strutture u­sate per l’Expo 2015 e fa leva proprio sulle infrastrutture già esistenti come la ferrovia, le strade, i canali. Una sorta di ponte verso il futuro attraverso un distretto delle innovazioni. Ci saranno incubatori per “start up” ed esperti che aiuteranno le idee a crescere.

Ma anche spazi in cui grandi a­ziende potranno trasferirsi per fare sistema e 500 residenze per i lavoratori, come in un grande campus. Arriverà l’U­niversità statale, l’ospedale “Galeazzi” e il “Human Tech­nopole”, il nuovo centro di ri­cerca italiano che sarà un punto di riferimento per il futuro della medicina. Il Mind avrà una enorme valenza strategica per tutti gli attori in cam­po. Creeremo anche luoghi perfetti per l’arte, la cultura, lo spettacolo.

Per rendere l’idea di quello che il progetto ha in mente di diventare le cito una frase che mi piace e la riassume: “Il successo di New York non è legato ai grattacieli o ai monumenti, ma ai carrettini degli hot dog”. Questi fanno percepire la vera essenza della città. Ecco, quella vibrazione urbana, quel senso di città da vivere è quella che vorremmo ricreare».

E come ci riuscirete?
«Attraverso diversi step: un’attenta pianificazione urbanistica, la creazione di un efficiente ecosistema di aziende che la­voreranno in sinergia sul sito e una grande attenzione alla sostenibilità. A questi aspetti aggiungerei un’attitudine di apertura verso l’esterno: in pratica qualsiasi azienda che sposi la nostra visione può candidarsi a far parte dell’ecosistema».

In base alla sua esperienza crede che sarebbe possibile esportare il “modello Expo” nella nostra zo­­­­na per riqualificare qualche area, come a esempio gli ospedali di Alba e Bra che, quando la struttura di Verduno sarà a regime, dovranno essere ripensate?
«Le risponderei con le parole dell’economista americano di origine italiana Enrico Moretti che sostiene: “la concentrazione di talenti e capitali è la chiave per generare sviluppo”.

Lui si riferisce alla Silicon Valley. Quello che si dovrebbe realizzare in Italia, e nelle nostre zo­ne, è replicare questo modello di concentrazione di talenti più grandi capitali, ma migliorarlo aggiungendo la qualità della vita tipica della nostra cultura.

Quindi, per rispondere alla sua domanda, bisognerebbe riprodurre in scala minore questa verticalizzazione, i­dentificando una o due aree di eccellenza e da lì partire a sviluppare progetti».

Un esempio concreto?
«L’Università di Scienze gastronomiche è perfetta. Rap­pre­sen­ta un’eccellenza su un ar­go­men­­to molto ristretto e verticale ed è immersa nel territorio. Per questo è di­ven­tata polo di eccellenza per gli studenti internazionali ap­pa­s­sionati alla cultura del cibo».

Langhe e Roero come la Silicon Valley, non male come idea!
«Meglio della Silicon Valley. Qua si può concludere una intensa giornata di lavoro con un bicchiere di Pelaverga! Per capirci, il nostro punto di forza è una qualità della vita difficilmente replicabile altrove. Ser­ve però la capacità di trovare una nicchia circoscritta in cui essere un’eccellenza assoluta, in modo da attrarre i fondi di investimenti e, da ul­timo, realizzare una efficace pro­mozione».

In tutto questo viaggiare che co­sa è rimasto delle sue origini?
«Molto. Sono nato con un “im­printing” dell’eccellenza uni­to ad elementi di concretezza e alla voglia di fare le cose per be­ne che questo territorio ti insegna fin da piccolo. Vivendo in città come Milano ho apprezzato alcune caratteristiche della mia famiglia e più in generale della mia terra come l’“understatement”, il fare bene senza proclami e il comunicare le cose dopo che sono state fatte. Niente fuffa, insomma. Pri­vilegiare sempre l’essere rispetto al mostrare».

Com’è stato essere il figlio di un per­sonaggio pubblico così amato in zona, l’ex sindaco di Bra Bruna Sibille?
«Mia madre è stata un esempio, come tutta la mia famiglia. So­no cresciuto in un ambiente aperto, attento agli altri, estroflesso direi. Fin da piccolo mi è stato chiaro il concetto di co­munità. Ai tempi delle prime StraBra, volute fortemente da mia madre, ricordo l’emozione di vedere la città intera coinvolta in un evento così trasversale e aggregante. Da mio papà ingegnere ho ereditato invece la mia parte pragmatica, un po’ quadrata».

Sebbene sia molto giovane può fare un bilancio: essere provinciali è un vantaggio?
«Penso proprio di sì e l’ho capito confrontandomi con mia mo­glie. Lei è vissuta a Torino, in centro e la sua infanzia e adolescenza sono state diverse. Io a otto anni andavo in giro per Bra senza cellulare, i miei ge­nitori erano tranquilli perché c’era una sorta di controllo sociale: non facevo fesserie perché la panettiera lo avrebbe riferito a mia madre. Ricordo la sensazione di libertà assoluta girando da solo per la mia cit­tà».

Che cosa manca, invece, alla pro­vincia?
«Non si può certo generalizzare ma forse è più difficile trovare quella tensione verso il risultato, quella sete di imparare anche a costo di grandi sforzi mentali e fisici che ho trovato in una città internazionale e competitiva come Londra, ad esempio».

Che consiglio darebbe ai ragazzi freschi di studi?
«Direi di rilassarsi perché nessuna decisione sarà definitiva. Spesso si vive nell’angoscia temendo che un cambio di lavoro influenzerà la propria esistenza per sempre. Niente di più sbagliato: la vita ci dà calci e spinte di continuo. Ci sposta. Ogni scelta può essere corretta e, soprattutto, sbagliare è normale. Addirittura, fallire è normale. Centinaia di start up falliscono e altrettante emergono.

Bisogna guardare alle scelte con la mente aperta perché la vita è piena di svolte. È utile non pensare al lavoro ideale ma riflettere su un orizzonte temporale di soli cinque anni e immaginare, da subito, anche un paio di potenziali vie di uscita. Suggerirei poi un’esperienza in una grande azienda internazionale, prima dei trent’anni.

E ancora prendersi tempo per un viaggio: due, tre mesi, se possibile, zaino in spalla oppure come volontario. Pensare che viaggiare non è perdere tempo ma guadagnarlo. In poche parole darei un consiglio solo: uscite dalla zona di comfort».

BaNNER
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