«Che c’è dietro a uno scatto? Un racconto»

Guido Harari, fotografo di fama internazionale e albese d’adozione, riflette sul mondo dell’arte

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«L’arte è qualcosa che apre gli o­rizzonti, specie quan­do fisicamente gli spazi si riducono». Basta una “riflessione da quarantena” di Guido Harari a far capire che una chiacchierata con lui merita di essere affrontata con carta e penna a portata di mano. D’altronde da fotografo di fama mondiale qual è, gli capita con una certa frequenza di essere etichettato come “maestro”.

Lui ci ri­­de su e spiega: «Non ci sono maestri. Siamo tutti alunni. Non c’è nulla da insegnare. L’unica cosa che si può fare è condividere la propria esperienza perché c’è il fo­tografo che ha avuto la fortuna di crescere a New York dove ci sono istituzioni incredibili per le arti visive, mentre c’è chi come me ha cominciato in Italia, quando non c’era niente ed eravamo tutti autodidatti».

Il periodo di distanziamento sociale Guido Harari lo ha trascorso ad Alba, perché è nella capitale delle Langhe che vive ormai da anni. «Mi sono lasciato alle spalle Milano ormai una quindicina di anni fa», spiega l’artista. «Sono venuto ad Alba per cercare quel clima ideale per i progetti che avevo in mente e l’ho trovato, co­me ho conosciuto persone che sono di­ventate carissimi amici. A­ve­vo già l’idea di una galleria in cui chiamare a raccolta altri fotografi e l’ho realizzata qui, senza l’ansia di creare un business, di avere un negozio. “Wall Of Sound Gallery” è un luogo fisico, e mi piace che lo sia, ma è anche un laboratorio, un trampolino per fare cose da portare fuori».

L’altro giorno in diretta Fa­ce­book con Marco Monte­ma­gno av­ete parlato della fotografia dei “dettagli”. Ci spiega meglio?
«L’attività relativa al ritratto di personaggi famosi si è ridotta, un po’ mancanza di interesse da parte mia e del mondo dei giornali, un po’ perché è cambiato il tipo di lavoro. Ho collaborato con tanti artisti che hanno rappresentato la cultura del Novecento, un mondo che si è quasi estinto e non è stato sostituito da materia altrettanto interessante per me. Il lavoro della galleria, poi, mi ha assorbito: è diventata anche una casa editrice e quindi fonte di grande impegno. La fotografia dei “dettagli” è una specie di percorso parallelo iniziato qualche anno fa per divertimento e che mi ha preso la mano, anche perché ho cominciato a utilizzare Photoshop e a cercare altro ri­spetto alla semplice riproduzione di un dato reale».

La fotografia ha oltre un secolo, ma sembra essere in salute.
«Grazie agli “smartphone” tutti sono diventati “fotografi”, tutti hanno il potere di condividere foto sui social. La fotografia, pe­rò, presuppone un pensiero dietro all’immagine, non basta immortalare quello che si vede magari anche con abilità e un oc­chio curioso. Chi scatta non sempre crea un racconto, non lascia il tempo alle esperienze di sedimentarsi e trasformarsi in un’immagine. A volte l’immagine arriva prima ancora di fare esperienza o addirittura sostituisce il momento dell’esperienza. Si vi­ve un mo­mento perché lo si fotografa e non si fotografa il momento perché lo si sta vivendo. Non è sempre così, ovviamente. E comunque la fotografia è un linguaggio di sintesi e uno sguardo democratico: tutti possono catturare un’immagine senza per questo doverci appiccicare intellettualismi o fare grande letteratura. Ci sono pittori concettuali che hanno fatto operazioni molto raffinate, dense dal punto di vista culturale, ma ci sono artisti come Antonio Ligabue, pittore naturalistico nello stile, che è stato grandissimo senza toccare i massimi sistemi. Oggi ci sono addirittura macchine fotografiche che consentono di mettere a fuoco selettivamente l’immagine dopo averla scattata. Si possono ricreare e modificare le luci della foto originale e quindi il mezzo non conta più, se non per la qualità e le dimensioni del file. Anche gli “smartphone” stanno arrivando a uno standard interessante e mi­glioreranno ancora di più in futuro. Parlavo con un responsabile di Leica il quale mi diceva che stanno prendendo in considerazione l’ipotesi di creare un prodotto che sia identico a uno “smartphone” come forma e ma­neg­gevolezza, ma con le caratteristiche di una macchina fotografica. La tecnologia e­volverà ancora, ma ciò che più con­ta è la visione di chi scatta la foto e cosa vuole esprimere».

Lei ha fotografato i più celebri artisti musicali italiani e internazionali, da Fa­bri­zio De André e Vasco Ros­si, a Lou Reed e Bob Dylan. Ha mai pensato di ritrarre anche persone no­te a livello locale, come Sindaci o Amministra­tori, per mo­strar­li sot­to una luce diversa?
«Non ci sono preclusioni; magari ci sono aspetti della loro vita che per me potrebbero essere interessanti da indagare e che nulla hanno a che fare con il loro ruolo ufficiale. L’ho fatto per un lungo periodo, con sportivi e imprenditori per riviste come “Sport­week” e “Gentleman”. Io amo fotografare anche persone co­muni, non sono blindato nel ghetto dorato delle celebrità (ri­de, ndr). Quando incontro una persona che ha un viso interessante e che, anche
in­consapevolmente, mi offre diverse letture, voglio fotografarlo senza bisogno di grandi set, perché penso che quell’immagine possa essere d’ispirazione».