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Il drammaturgo che raccontava la gente di Langa

Ricordando Valerio Elampe e quei personaggi condivisi con Fenoglio, «spariti con la modernità»

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Valerio Elampe è stato il drammaturgo degli anni ’70. Grazie a lui, in quegli anni, ad Alba nacque il Lut, il laboratorio universitario teatrale, che operò sul territorio per circa un decennio. Con la preziosa collaborazione del regista Sandro Bobbio, attivo presso il Teatro Duse di Genova, Valerio Elampe riuscì a fondare una compagnia che per diversi anni scrisse la storia del teatro popolare albese e di Langa. Elampe ci ha lasciati alcuni anni fa. I suoi racconti e le sue opere teatrali sono raccolti in un libro pubblicato dalla casa editrice Baima e Ronchetti su iniziativa di Elisa, figlia di Valerio. “Passavo di Qua” è una raccolta di pieces teatrali e di racconti ambientati tra Alba e le Langhe. «Presi la decisione di far stampare questo libro – racconta Elisa -, quando, trovandomi a “smontare” lo studio di papà, mi ritrovai tra le mani molto materiale risalente all’epoca della sua produzione teatrale (foto, manoscritti, locandine, articoli di giornale). Fu così che, con la collaborazione degli amici Bruno Murialdo e Corrado Marengo, assemblai una raccolta antologica di teatro e racconti. Per molti fu una scoperta, per altri un’occasione per tornare, con un pizzico di nostalgia, ai mitici anni della “migliore gioventù”. Mi convinsi che il lavoro di mio padre, e l’impegno di quanti allora gravitavano intorno al Lut, a cominciare da Dino Lavagna e Valentina Cucchietti, non poteva andare perduto. Non importa se, come diceva lui, i suoi testi “ora sono datati e non più attuali”, essi rimangono comunque un pezzo della storia di Alba e delle Langhe, una preziosa testimonianza della vivacità culturale della nostra terra e di chi ha avuto la fortuna di nascervi e viverci in quel periodo».
Elisa ricorda come Valerio spiegasse che «Il mio Vanni era identico a Ettore di “La paga del sabato” di Beppe Fenoglio, in molti dei miei drammi ho raccontato La Resistenza, ho raccontato storie legate al mondo contadino, alla cultura che avevo intorno, alle superstizioni e alle credenze popolari. Credo che io e Beppe Fenoglio, in fondo, condividessimo la curiosità di capire il mondo che ci girava intorno e gli abitanti di queste colline che, di fatto, sono diventati i personaggi delle nostre storie, rappresentate sul palcoscenico o narrate. Questa è stata una terra dura, che ancora oggi non si è ammorbidita. È svanita la miseria, e con lei buona parte dei valori che, nonostante tutto, portava con sé, sono svanite molte speranze, nel mondo di oggi è difficile prevedere o fare progetti senza assumersi grandi rischi o affrontare significative incertezze. I Placido e i Tobia che percorrevano le Langhe sono scomparsi con l’avvento della cosiddetta modernità e con loro sono sparite quelle qualità umane, forse un po’ grezze, eppure autentiche. Ho portato sui palcoscenici i racconti di questa Langa con l’interesse di chi vuole raccontare, di chi vuole mostrare e condividere. Sono stato un verseggiatore riservato, passavo molto tempo a riflettere, mi piaceva il confronto. Non si scrive per se stessi, si scrive sperando che qualcuno legga, e che, tra le righe, chi legge sappia cogliere e tradurre significati e messaggi consegnati alle pagine. A scuola ho insegnato ai ragazzi i valori della vita, ho spiegato che le ragioni non stanno mai da una parte sola. Che il potere è potere e non sempre è dalla nostra parte. Ho creduto, militato, erano gli anni della speranza che purtroppo ha lasciato il posto alla confusione. Chi scrive pensa sempre che il suo sia il pensiero giusto, quello corretto, ma non è così. Non sempre chi scrive ha ragione. Anche Pavese e Fenoglio e gli altri scrittori di questa terra avrebbero potuto cadere nel tranello della scrittura. Scrivevano dei sentimenti che in quel momento provavano, che è difficile comprendere, dopo molto tempo, per quello che sono stati. I sentimenti cambiano, cambiano i punti di vista e anche le persone non sono le stesse di allora. La malora di Fenoglio aveva le proprie di ragioni. Oggi ritroviamo qualcosa di simile nelle periferie delle grandi città ma è difficile dire se chi ci vive si senta nello stesso modo, si senta come i contadini di Fenoglio».
E ancora altre significative riflessioni consegnate alla memoria collettiva: «Sicura­mente noi eravamo un bel gruppo, tutti, a proprio modo, legati alla rappresentazione scenica. Il Lut è stato un momento altissimo dal punto di vista dell’espressione artistica e del suo significato sociale, pochi ne avevano capito la grandezza. Alba portava il teatro nei paesi, anche i più piccoli, portava il suo teatro fuori regione. Il Lut era composto da un gruppo di giovani che non si arrendevano alla fatica. Fare Teatro significava preparare la scenografia, montare le scene, recitare, smontare le scene, tornare a casa e andare a lavorare. Questa era la via crucis degli attori del Lut. Quello che abbiamo fatto è straordinario. Il messaggio che voglio lasciare è che nessuno può fare da solo e non tutto può essere fatto dentro le mura di una comunità. Bisogna aprire le porte delle nostre case e della nostra cultura a esperienze diverse e per questo importanti. Questo è ciò che il Lut può dire di aver fatto. Le nostre esperienze erano farcite di letteratura globale. Per viaggiare e conoscere il mondo bastano una penna e un foglio di carta. Sono un viaggiatore che ogni giorno percorre le pagine della storia, ho incontrato scrittori e poeti che oggi sono tutti lì in quei fogli ancorati ai porti delle vita».

Articolo a cura di Bruno Murialdo

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