«La mia ossessione è cercare la verità e aiutare le vittime»

L’inviato di “Storie italiane” su Rai1 ha realizzato un corso di videogiornalismo investigativo: «Un’opportunità reale per chi vuole fare questo mestiere, sapendo che servono passione e tanto studio. E un’altra cosa: devi essere una persona per bene. Basta con i trucchetti, la gente non si fida più»

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Un corso per imparare i trucchi del mestiere. Ales­san­dro Politi met­te a disposizione la sua esperienza da giornalista d’inchiesta. Non accade spesso.

Ci spiega di cosa si tratta?
«È un corso di videogiornalismo investigativo. Un’esplora­zione del true crime che è diventato genere d’intrattenimento, purtroppo».

Ovvero?
«L’atteggiamento violento nel sociale è sempre più diffuso, vedi fenomeni baby gang, femminicidi, violenza sui minori e di genere. E la passione si ingenera nelle persone che magari prima hanno visto il Grande Fratello e poi passano ai morti ammazzati. Tutto questo con il racconto di finti giornalisti che non conoscono la deontologia e le leggi, con i rischi annessi al processo mediatico».

Lei è stato alle Iene, dove il confine è appunto labile…
«Nel tempo hanno puntato sempre più sull’infotainment, me ne sono andato per una nuova sfida professionale. Parenti resta un mio maestro e ho imparato molto da alcuni tra gli autori migliori che lavorano a quella trasmissione».

Qual è la sua esperienza?
«Mi sono occupato di temi scottanti e l’ho sempre fatto con attenzione, rifiutando l’idea di andare in onda per fatturare, difendendo la mia credibilità. Non ho mai cercato lo scherzo, mai rincorso l’intervistato… Ma c’è tutto un sottobosco. Da qui la necessità di aiutare un’intera categoria a rinascere, a distinguersi dal resto per permettere alle persone di credere nella buona informazione. Que­sto corso dà un’opportunità reale ai giovani (ma si sono iscritti anche colleghi 40enni): apprendere nozioni da nomi come Milena Gabanelli, Peter Gomez o Gianluigi Nuzzi. Io? Sono il ventunesimo alunno del corso… Devo ringraziare Il Giornale perché questa è un’academy che non ha eguali. Spesso tengo lezioni all’università e intanto sto prendendo un’altra laurea, ho l’insegnamento nel sangue. Mia mam­ma era professoressa e giornalista, mio papà, siciliano, ha fatto lo stesso mestiere con L’Ora di Palermo. Ho questo background. Il corso offre non solo l’opportunità di ap­prendere i trucchi del mestiere ma anche i sistemi per montare in velocità le immagini, cosa dire e non dire, cos’è una notizia e come si struttura un pezzo, tenendo conto che la tv è diversa dalla carta stampata».

Quali caratteristiche deve ave­re un buon giornalista?
«Dico sempre, ma tu vorresti farti progettare casa da un ingegnere improvvisato? Oppure ti faresti operare da chi ti dice “so farlo ma non sono medico”? Perché allora ti fidi dell’opinione di chi non ha studiato? Questo è il tema. L’articolo 21 della Costitu­zione è meraviglioso, base della democrazia, però assistiamo a un’applicazione estensiva in cui vale tutto. E le conseguenze le paga il cittadino che non sa da che parte girarsi. L’altro punto riguarda il fatto che un giornalista deve essere una persona per bene. Se mi capita di fare un’intervista a qualcuno che mi chiede però di non apparire in video – perché non vuole essere riconosciuto – io dico va bene e lotto con il mio caporedattore pur di mantenere la parola. Ma poi capita che, dopo di me, un altro fa la stessa intervista e la manda in onda senza filtri… Tutto si riassume in un assunto: chi fa così non è una persona per bene. Un giornalista deve essere un ottimo pr, avere fonti di fiducia ed essere credibile. Poi c’è lo studio. Va bene consumare le scarpe, come si dice, ma bisogna anche lasciare i neuroni sui libri, avere le necessarie nozioni. Studiare per l’esame di stato da giornalista è fondamentale per fare questo mestiere. Non puoi non conoscere le differenze tra pm e gip. Ma vedo in tv colleghi che fanno errori gravi. La masterclass allora nasce dal desiderio di stabilire un limite, un confine tra il giornalismo vero fatto di impegno, studio, tecniche e tutto il resto: l’intrattenimento e l’opinionismo improvvisato. Per me la missione è trasmettere a chi segue il corso il vero giornalismo».

Quello d’inchiesta?
«È per questo che non mi occupo di politica. Non voglio cadere da una parte o dall’altra, se fai propaganda diventi il megafono della fazione che rappresenti. Come un telecronista sportivo che palesemente tifa per una squadra con passione e livore: non è credibile. Io ci metto amore cercando di dare voce a chi non ce l’ha, per la verità. Ma la verità politica o sportiva è relativa, quella giudiziaria anche. La vera verità arriva dal giornalismo d’inchiesta».

Che va svolto sul campo.
«Sì, è lì che si vive una realtà diversa dallo studio tv, fare il conduttore è un’altra cosa. L’inchiesta la fai sul campo dove senti i respiri del tuo interlocutore, vedi gli sguardi di paura o i silenzi. Mi sono occupato, per “Storie di sera” su Rai1, del caso di Maria Chindamo, la donna calabrese uccisa, secondo il boss pentito Mancuso, a quanto pare per un regolamento di conti. Ecco, sul campo ho intervistato persone che mai avevano parlato prima. Il programma funziona perché Eleonora Da­niele lascia spazio agli inviati, io faccio anche dirette di mezz’ora».

E la gente apprezza.
«Eleonora rispetta e riconosce il lavoro e la professionalità di chi va in strada e non si limita a raccogliere notizie che magari sono già uscite sui giornali. Io non mi accontento, sono affamato».

Al corso avvisate che si tratta di un lavoro difficile?
«Dico sempre: se non avete passione, cambiate mestiere, non pensiate che qui vi lancino fiori. Quando durante il Covid ho seguito la storia del plasma iperimmune – che funzionava – ho rischiato, me ne hanno dette di tutti i colori, alla fine però ti godi qualche gratificazione. In quel caso ho passato tre mesi e mezzo all’ospedale di Padova, è una guerra questo lavoro. E la mia compagna dopo cinque anni mi ha lasciato, ha detto che lavoro troppo. E se non lavoro, studio. Come quando stavo seguendo il caso Alice Neri a Modena. Mi chiama il capo “c’è un caso ad Avellino, vai tu Alessandro”. Prendo l’auto e guido nove ore, dopo una mattinata di appostamenti. Arrivo alle 10 di sera e il capo mi dice “vai a dormire”, ma sapeva che non l’avrei fatto. Ho trovato subito due persone chiave. Non lo dico per sentirmi bravo, ma perché serve questa ossessione».

E alla fine cosa le rimane?
«Il senso della mia vita, vivo il mio sogno aiutando persone e facendo il mestiere come una missione. Per aiutare. Sem­brerò Padre Pio, ma è così. Quando mi sono occupato del caso di Pompeo Panaro, il figlio Paolo cercava la verità da anni. Lui, un pezzo di ghiaccio, si è messo a piangere per il mio servizio. Mi ha detto “grazie, hai ridato a mio padre la dignità che gli avevano tolto”. Capita spesso e vale tutto. La paura? C’è anche quella, ma mi fa più paura pensare di poter morire casualmente».

CHI È

È nato a Milano il 13 marzo 1988. Laureato in Giurisprudenza, ha cominciato collaborando per Il Fatto Quotidiano nella versione online. Attualmente è inviato per la trasmissione “Storie italiane” su Rai1, condotta da Eleonora Daniele, dove si occupa dei casi di croanca nera

COSA HA FATTO

Si è affermato come autore e inviato della
trasmissione “Le Iene” su Italia 1 con le sue inchieste su grandi casi di cronaca, dalla strage della ThyssenKrupp alla lotta al Covid-19

COSA FA

Guida una masterclass per videoinchieste, realizzata con la Newsroom Academy del quotidiano Il Giornale e dedicata ad
aspiranti reporter, fotografi, giornalisti investigativi. Tra i relatori, Milena Gabanelli, Peter Gomez e Gianluigi Nuzzi