«Lo “stile saluzzo” deve fare i conti con le nuove idee»

Renzo Pasero e l’antica tradizione mobiliera: «I gusti cambiano, all’estero clienti più aperti»

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Culla dell’artigianato ligneo piemontese e terra d’origine di fantasiosi ar­tisti e artigiani, quella tra Sa­luzzo e il legno è una storia an­tica e ricca di tradizione, portata avanti ancora oggi da abili maestri la cui laboriosità e ri­cerca stilistica hanno segnato un’epoca importante, sia sotto il profilo creativo che economico. Il mobile in “stile Saluzzo” è stato sinonimo di classe, eleganza, tradizione. Una tradizione che forse oggi non c’è più, ma che, attraverso il dialogo con il presente e l’impegno delle eccellenze artigiane del territorio, si è evoluta ed è mutata, creando nuove forme e paradigmi, pur nelle differenze, continuano a raccontarne l’identità. È in questo filone di creativi e innovatori che si inserisce la figura di Renzo Pasero, anima dello studio di interni (in via Circonvallazione 12) che porta il suo nome. I suoi lavori sono sinonimo di eccellenza e alta scuola artigiana, profondo rinnovamento e nuovi linguaggi espressivi ca­paci di declinare l’arte del mobile attraverso nuove, ricercate sfaccettature. Protagonista dell’artigianato saluzzese, Ren­zo Pasero ha iniziato a lavorare giovanissimo nell’azienda pa­terna, prima in falegnameria e poi negli uffici. Oggi ha raggiunto importanti traguardi nell’ambito dell’interior design a cui si è dedicato con passione, facendo di ogni pezzo creato, un pezzo d’arte e artigianato unico e attuale, capace di affascinare e creare bellezza.

Ci racconta dei suoi inizi?
«Ho iniziato a 12 anni, quando ancora andavo a scuola. Pas­savo ore nel laboratorio di mio padre perché ero innamorato della falegnameria e quando frequentavo la II Commerciale, con grande dispiacere dei miei genitori che avrebbero voluto continuassi gli studi, ho voluto lavorare. Quando avevo 18 anni papà è mancato e, dopo aver attraversato una serie di vicissitudini (la maggiore età si raggiungeva ai 21 anni, ndr), ho preso in mano l’azienda di famiglia. Per fortuna avevo già il mestiere, il resto l’ho imparato con l’esperienza e lo studio, che ho ripreso in seguito. Ancora oggi sono in continua ricerca: continuo a studiare e imparare».

A suo parere oggi può ancora esistere la produzione di mo­bili in “stile Saluzzo”?
«Oggi non più. L’errore è stato riprodurre le opere del passato. Il mobile in stile Saluzzo era il rifacimento di opere del 6/700, complessi da mantenere. All’epoca si dava il vasetto di ceralacca, la spazzola per fare manutenzione. Poco a poco si è spento. Le cose hanno cominciato a cambiare negli anni ’80: cominciavano a girare le riviste specializzate, a girare più informazioni. Nell’82 ho smesso di fare il Barocco Piemontese: il passaggio dal classico al moderno non è stato semplice. Viaggiare per l’Europa visitando fiere del mobile mi ha aperto gli occhi: ho studiato e ho imparato».

Ma Saluzzo potrebbe ancora essere la capitale italiana del mobile?

«Troppo difficile capirlo oggi: in piena terza guerra mondiale, con tutto quello che c’è in essere, non sento di poter fare pronostici».

In che modo si è evoluto il gusto dei clienti e come si intercettano le nuove “mode”?
«Il gusto del cliente cambia continuamente, non è definibile. La pandemia, poi, ha cambiato tutto. Facciamo un po’ gli psicologi: si cerca di intuirne i bisogni, le esigenze, il tipo di vita che fa, la socialità. Un esempio: a Limone Piemonte ho lavorato soprattutto su seconde case che sono anche più importanti delle prime perché sono luoghi di svago, in cui ci si reca per staccare dal lavoro, ricaricarsi. La cosa sicura è la sauna: sulle seconde case ci siamo “inventati” saune in 60 metri quadrati. E negli spazi piccoli, il design conta».

È più aperta alle novità la clientela italiana o straniera?

«Gli stranieri sono più aperti. Ho lavorato con russi, inglesi, norvegesi. Sono più aperti al confronto e, soprattutto gli inglesi, hanno una mentalità diversa, danno valore alla professionalità. Ti chiedono quanto costa la tua professionalità, si fidano. Gli italiani sono più diffidenti».

Come crea mobili e ambienti?

«L’arredamento è come la moda, o sai disegnare o no. Puoi imparare il disegno geometrico, ma il resto deve essere innato. È questione di prospettiva: vedo un ambiente e ho in mente la casa, poi la parte creativa la faccio a mano. Il mobile lo penso in pochi secondi e si trasforma in disegno appena prendi in mano la matita».

Segue particolari disciplinari?
«Prendiamo sempre legno di prima scelta, mandiamo la foto al cliente del legno come entra il laboratorio, ne garantiamo la provenienza che sia noce, cedro canadese, rovere. La falegnameria è questa: come mi ha insegnato mio papà, la materia prima deve essere nobile».
Come si trasmette, oggi, l’esempio e la manualità dell’artigianato artistico?
«La scuola dà basi importanti ma poi devi andare in falegnameria, non c’è altra strada: bisogna sempre passare dalla bottega».
Però tanti giovani – non a caso a Saluzzo da diversi anni si tiene “Start Storia Arte Saluzzo” – tornano a fare artigianato. Come lo spiega?
«Vi ho partecipato anche io. Se hai passione, attraverso l’artigianato puoi dimostrare chi sei, ti metti in gioco. L’artigianato ti fa sentire realizzato: devi impegnarti tutti i giorni e se ami la sfida non c’è niente di più bello. Tanti giovani scelgono questa strada, e ce ne sono di bravi. La curiosità è fondamentale per evolversi e andare avanti».