«Nel lockdown la Grecia è stata il mio respiro»

Giuseppe Cederna parla con la Rivista IDEA di Mediterraneo, montagna e Gianmaria Testa

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Cos’ha fatto Giu­sep­pe Cederna in pandemia? Ha imparato a falciare il grano e a lavorare la terra. No, non in una qualche tenuta alle porte di Roma dov’è di casa, ma in un’isola greca che comincia per K, dov’è altrettanto di casa.

Cederna, ci spieghi

«La pandemia, le ondate, le varianti, i teatri chiusi, gli attori in crisi e una forte sensazione di incapacità creativa. Il desiderio di fuggire era grande e non appena hanno riaperto i confini sono partito insieme alla mia compagna. Era il 3 luglio 2020».

Perché la Grecia? A noi torna subito in mente “Mediter­raneo”, il film premio Oscar di Gabriele Salvatores, dove lei interpretava il soldato innamorato di una prostituta.

«Un bellissimo ruolo e la scoperta di un’isola che è diventata appuntamento annuale. Però la Grecia fa parte del patrimonio culturale di famiglia. Mio padre è archeologo e la Grecia, Creta, Atene e la cultura classica in genere fanno parte della mia formazione, L’Odissea è un libro che ho conosciuto presto. Il mio bisogno di tornare in Grecia è polmonare».

Sì ma la terra e la falciatura del grano cosa c’entrano?

«Abbiamo incontrato una fa­miglia di contadini ristoratori che ci ha praticamente adottati. Ci ha ospitato offrendoci la stanza della loro figlia maggiore senza chiederci niente. Allora per ricambiare ho voluto aiutarli: nei lavori dei campi e anche procacciando loro clienti per la taverna».

In Grecia è un’abitudine at­trarre i turisti davanti ai ristoranti.
«Infatti. Quando mi accorgo che sono italiani li intercetto subito e, un po’ per scherzo un po’ no, finisce che si fermano. Alcuni mi riconoscono e mi chiedono un selfie. Lo racconto anche nello spettacolo».

Ecco appunto, parliamo dello spettacolo, un titolo curioso, “Le isole del tesoro”.

«È nato da un’idea di Sergio Maifredi, il regista, per la rassegna da lui diretta “Capitani coraggiosi” a Palazzo San Giorgio”, a Genova, dedicata a spettacoli e storie di mare. “L’isola del tesoro” di Ste­venson è uno dei miei libri preferiti e quando sono saltate le date di “Tartufo” (lo spettacolo con cui era in tournée, interrotto dalla pandemia, ndr), ho ripreso quel libro che è stato la mia luce nel buio. Due capitoli di Stevenson ogni mattina sono stati la mia disciplina quotidiana».

Ma le isole sono due…
«Infatti l’altra è l’isola greca, dove è nata l’idea vera e propria, quella di intrecciare la mia storia recente con quella di Stevenson e con alcuni capitoli del libro. Stevenson soffriva di fragilità polmonare ed era sempre alla ricerca di luoghi adatti per migliorare le sue condizioni di salute. I suoi luoghi del respiro mi hanno fatto pensare al nostro respiro di oggi, minacciato dal Covid e l’isola greca è stata per me il respiro del vento».

A proposito di Mare Medi­terraneo, mi racconti dello spettacolo dal libro di Gian­maria Testa, “Da questa parte del mare”, diretto da Giorgio Gallione.
«È il racconto delle storie e delle situazioni che hanno dato vita alle canzoni dell’album omonimo, ed è anche, inevitabilmente, il racconto di Gianmaria stesso e del suo rapporto con l’esodo dei migranti che un giorno si studierà nei libri di storia. Le voci sono anche le loro. I testi so­no di Marco Revelli e miei, dalle testimonianze di Ales­sandra Ballerini, avvocatessa che è stata a Lampedusa in prima linea».

Infatti lo avete portato anche lì. Com’è andata?
«Poche ore prima mi chiamano i volontari di Mediterranea per comunicare che sarebbe ar­rivata una barca a vela che aveva soccorso dei migranti e mi hanno permesso di assistere all’attracco. Vedere quella gente, quei corpi vinti dal ma­re, è stata un’esperienza du­ra, importante. Quando so­no andato in scena, il palcoscenico vero era alle mie spalle».

Con Gianmaria vi eravate conosciuti?

«Ho avuto la fortuna di conoscerlo e di stabilire con lui e con Paola Farinetti, la mo­glie, un rapporto strettissimo. Ora infatti stiamo lavorando a un nuovo spettacolo che debutterà la prossima stagione, sempre con la regia di Giorgio Gallione, tratto da “Storia di un corpo” di Daniel Pennac. È il diario intimo e fisico di un uomo dai dodici anni fino alla morte, a 87, in cui il protagonista annota meticolosamente i cambiamenti del suo cor­po».

Parliamo invece della sua frequentazione con la poesia.

«Una salvezza. Al punto che ho creato il canale YouTube “Poesia salvaci tu”. L’idea è stata della mia compagna, Alessandra Ferrari, durante il lockdown: riprendermi mentre leggevo una breve poesia, durata massima cinque mi­nuti. Faccia un salto».
Detto fatto. Ho appena ascoltato i versi di Claudio Damiani sul monte Soratte, quello che ha ispirato anche Orazio.
«Come facevo a non conoscere Claudio Damiani. L’ho conosciuto grazie a un amico e ora lo leggo anche al telefono. Ho lasciato un messaggio a un amico che vive a Milano. Damiani vive a pochi chilometri dal monte Soratte dove io vado spesso, sono innamorato di quelle montagne».

Infatti volevo proprio chiederle delle sue camminate poetiche in montagna, per “Scon­finamenti”, la rassegna organizzata dall’Enoteca Re­gio­na­le di Ovada e del Monferrato.

«Una passeggiata letteraria tra i boschi, in silenzio, intervallata da quattro stazioni dove ho letto e commentato poesie di Kavafis, Szym­bor­ska, Rimbaud, Ungaretti. È uno spettacolo rodato, fatto anche in vetta, ma ogni volta un’esperienza nuova».

La sua passione per la montagna da dove arriva?

«Sono per metà valtellinese e quelle montagne le frequento da sempre. Il mio bisnonno era un esploratore alpino, progettava rifugi, piantava alberi. Ho viaggiato molto, sono stato in India e sull’Hi­malaya, e ho cominciato a scrivere e a raccontare ciò che vedevo. In vetta sono felice».

Per questo è diventato una guida virtuale del museo della montagna di Torino?

«Sono quindici anni che le maschere mi vedono scendere in corda doppia e non ne possono più».