«Passione, follia e innovazione sono state la mia motivazione»

Paolo Saracco: storia e instancabile ricerca della massima eccellenza nel Moscato d’Asti

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Ad accoglierci il suo sorriso… ed in sottofondo, il suono garbato e puntuale della campana della chiesa parrocchiale Sant’Andrea di Ca­sti­glione Tinella. Ospiti di Paolo Sa­racco, in attesa dell’informale chiacchierata, nella sua bellissima sala degustazioni, ci riempiamo gli occhi di quei pae­saggi vitivinicoli magicamente illuminati dal sole che restano nel cuore e che per il “vignaiolo del Moscato d’Asti” rappresentano l’amore per la sua terra.

E non solo, signor Saracco, vero?
«Beh, io ho studiato all’Eno­logica di Alba ed ho terminato gli studi nel 1984. Erano gli anni in cui non si contemplavano ancora le potenzialità ed il valore della qualità in ambito enologico, seppur fossero tanti gli esponenti del settore conosciuti per le loro eccellenze. E mi riferisco a produttori come Bruno Giacosa, Bartolo Mascarello, Renato Ratti, la famiglia Conterno, Angelo Gaja e Bruno Ceretto… solo per citarne alcuni. Grandi produttori virtuosi che allora e tuttora sono la massima espressione del mondo del vino. Perso­nal­mente, giunto al sesto anno, concluso il percorso scolastico pensai di iscrivermi all’Univer­sità, anche se sentivo dentro di me, essendo cresciuto in mez­zo a queste colline, una propensione al lavoro in campagna che mio padre Giovanni, contadino in animo e spirito, mi ha trasmesso con forza. Siamo una famiglia da generazioni legata alla terra e le nostre origini fanno riferimento alla piccola proprietà agricola con i miei genitori impegnati in prima persona e noi figli di supporto nel periodo estivo… Quando gli altri andavano in vacanza… noi eravamo in vigna. Ho vissuto quegli anni con grande naturalezza, e allo stesso tempo, sono stati basilari per la mia formazione personale».

E poi, dopo il servizio civile decise di impegnarsi a fianco di suo padre…
«Sì. Il mio paese è famoso per il Moscato d’Asti, una coltura che negli anni ’70-’80 era particolarmente florida, per poi subire un graduale assestamento che ha dato origine ad una miriade di vignaioli, di contadini, che vendevano l’uva a grandi aziende produttrici. La mia famiglia è stata per quattro generazioni produttice del proprio vino, tant’è che il mio bisnonno faceva il suo Moscato, lo vinificava e lo vendeva sfuso alla Martini e Rossi o alla Carpano che lo utilizzavano come base per il Vermouth. Il mio ingresso in azienda interruppe questa consuetudine e originò una rivoluzione. Grazie alla mia passione, accompagnata sempre da un pizzico di follia, decisi di applicare nuove e più moderne tecniche di vinificazione, che richiesero indubbiamente significativi investimenti, ma nel contempo mi hanno permesso di dar vita ad un Moscato con la mia etichetta. Non è stato semplice, e, oggi quando ormai sono passati anni da quelle scelte devo riconoscere a mio padre il merito di avermi trasmesso i valori fondanti della mia persona come passione per questo lavoro, onestà e grande umiltà. Nel nostro rapporto, il suo silenzio ha sempre rappresentato la massima approvazione. Indelebile il ricordo del giorno in cui demolii le botti in cemento della vecchia cantina. Mio padre era andato qualche giorno al mare e al suo ritorno, scoprendo questa novità, non mi rivolse più la parola per diverso tempo… Credo, con il senno di poi, che se questa cosa fosse capitata a me, forse anch’io mi sarei arrabbiato terribilmente… I nostri caratteri erano differenti, ma il rispetto e l’affetto reciproco sono stati la base per impegnarmi nel co­struire un’azienda agricola che ha sempre creduto nel territorio in cui è insediata e nella qualità. La cantina che ho immaginato non si ispirava ad un modello e sono convinto che anche molti dei miei amici pensassero che ero un po’ “matt” però, io non ho mollato!».

E il mercato le ha dato subito ragione?
«Beh, non proprio e non subito… Avevo immaginato che il modo migliore per far conoscere il mio prodotto fosse venderlo ai ristoranti stellati della zona. E cosi, con ben sei bottiglie andai a Neive da Tonino Verro, titolare negli anni ’80 del ristorante “La Contea”. Mi presentai, e dopo cinque minuti il packaging del mio vino venne demolito: capsula non adatta, etichetta non bella, prezzo troppo caro… Però, sette giorni dopo Tonino mi chiamò, acquistando ben 120 bottiglie, a riprova che il prodotto era buono. Il secondo ristoratore che ha creduto in me è stato Gian Bovio del Belvedere e dopo di lui sono diventato amico di Guido Alciati. È stato quest’ultimo grande chef a farmi intuire di aver superato l’esame e forse, questo attestato di stima mi ha regalato l’entusiasmo di poter cominciare ad immaginare un mercato che via via è andato crescendo. A ciò devo aggiungere un ulteriore imput legato al grande Roberto Voerzio: acquistò dalla mia azienda agricola uva moscato che poi trasformò in un ottimo vino, da abbinare al suo grande Barolo. Questo gesto mi diede una motivazione ancor più forte per continuare a credere nell’unicità di questo vitigno».

Nel suo percorso professionale varie tappe di crescita hanno seguito strade non scontate…

«Oggi posso dire di essere fortunato, di avere un’azienda che funziona bene.. Non avrei mai immaginato di arrivare a questi risultati. Quando ho iniziato non avevo idee prestabilite e, soprattutto non sapevo dove queste mi avrebbero condotto. Ora mi è chiaro invece che la mia azienda è un mix di dedizione, follia, ma anche fortunata combinazione di tanti fattori».

E la riprova sono il mercato e le vendite che non sono tardate ad arrivare…

«Io sono cresciuto piano piano e ho radicato i miei estimatori prima in questo territorio, poi in Italia e via via anche all’estero, grazie ad una sinergia progredita in simbiosi con l’afflusso turistico che ha visto i primi visitatori svizzeri arrivare ed innamorarsi delle Langhe. Tra loro, ci sono stati anche diversi importatori di ogni parte del mondo. E devo ammettere poi, che non ho avuto molti competitor, a parte grandi produttori come Romano Dgliotti o Giorgio Rivetti e dunque per me la strada è stata facilitata da questo punto di vista».

È corretto dire che Paolo Saracco ha rivoluzionato an­che il concetto di “vigneron” nel mon­do del Moscato?”
«In parte sì. I miei coetanei lavoravano nelle aziende agricole di famiglia, ma hanno sempre venduto le uve alle grandi aziende spumantiere. Io, invece, ho preso a modello i vigneron del Barolo e ho cercato di personalizzare questa figura, consapevole anche delle difficoltà e dei costi per riuscire ad ottenere questo risultato. Oggi le cantine richiedono massimi investimenti in termini di tecnologia, ma soprattutto è indispensabile uno specifico e qualificato know how. Forse la mia testardaggine mi è servita per ampliare il mio orizzonte, mantenendo volutamente salde le tradizioni del piccolo produttore di qualità. Oggi, tanti giovani tentano di fare il percorso che ho fatto io, con la differenza che è oggettivamente più complicato entrare nel mercato. Un tempo, c’era molto più spazio ma nessuno ci credeva, oggi tanti ci credono ma il mercato è piuttosto affollato… Altro aspetto non secondario che mi è servito a crescere più velocemente è stata la consapevolezza di ri­schiare in prima persona; a 23 anni mi occupavo di tutto: i mercati, gli importatori e poi in cantina ed in vigna seguivo da solo tutte le fasi operative. È stato difficile anche l’approccio con i primi dipendenti: non avevo la cultura del gestire il personale».

Però la passione ha avuto la meglio…

«Ho la fortuna di abitare in un territorio perfetto per questo vitigno, e sono convinto che il terroir ed il microclima ci regalino una materia prima unica, che è ancora molto sottovalutata. Un prodotto dalle potenzialità incredibili, apprezzato anche fuori dall’Italia. Freschezza, unicità negli aromi, dolcezza, poco alcol, buoni sentori fruttati sono qualità che si sposano bene con tante cucine, come quella ispanica negli Stati Uniti, in cui questo vino si abbina quasi a tutto pasto. Il Moscato è unico perché, coltivato ad esempio in California, non verrà mai come in queste nostre terre».

Il suo Moscato ha un segreto?
«Non mi fido mai dei produttori che parlano di strane alchimie e magiche lavorazioni… Piuttosto contano tante piccole sfumature che ciascun produttore con la propria sensibilità coglie, accentua o smorza. Dico sempre che per me il vino migliore è quello che devo ancora fare…».

E in vigna?
«I miei terreni sono qui a Castiglio-ne Tinella, accuditi da una serie di dipendenti diretti dell’azienda agricola, e altri assunti stagionalmente che arrivano da noi a maggio e rimangono fino a fine settembre. Si tratta perlopiù di extracomunitari, un team di lavoro alloggiato presso le nostre cascine. Insieme a questo gruppo io e mia moglie condividiamo un progetto di vita oltre all’amore per questi vigneti che sono il nostro orgoglio e il nostro tenace attaccamento ai valori della nostra famiglia!».