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Manzini al Salone racconta i segreti di Rocco Schiavone

Lo scrittore romano ha presentato il suo ultimo libro

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Una “full immersion” nel Salone del Libro di Torino, con la partecipazione ai dibattiti negli stand del Lingotto e poi, domenica, il passaggio al Salone Off a Chieri, per una presentazione dell’ultima avventura di Rocco Schia­vo­ne: il libro “Vecchie Cono­scenze” (Sel­lerio). Nello scorso weekend abbiamo seguito passo dopo passo Antonio Manzini e ne abbiamo ricavato un’impressione piacevole, quella di un autore di valore, abile narratore, empatico e gentile. Meritato il successo di pubblico che lo ha visto impegnato nella firma dei libri nella Sala della Conceria, la location chierese.

Manzini, perché l’ambientazione valdostana per le vicende del vicequestore romano Rocco Schiavone?
«Cercavo un luogo che fosse all’opposto di ciò che piace a Rocco. Ecco, le montagne e il clima della Val d’Aosta sono esattamente qualcosa che un romano fatica a comprendere, ancora prima di apprezzare o meno. Certo, avrei potuto ambientare i racconti in Friuli, per esempio, a Udine. Ma lì non sono mai stato, avrei dovuto trasferirmi per qualche mese, entrare in sintonia con il luogo e le persone. Insomma, molto più semplice sviluppare la trama ad Aosta».

Ci racconta quella cosa dell’equivoco del loden?
«È il cappotto tipico tirolese, ma se andate in Alto Adige vi renderete conto che il loden non è un cappotto invernale, come pensano invece i romani. Nessuno lo indossa dopo settembre. Eppure, a Roma si pensa che sia un indumento pesante. Ma lo avete visto? Ha delle prese d’aria all’altezza delle ascelle, come può proteggervi nei giorni di freddo intenso?».

Rocco Schiavone si ostina a vestirsi così, anche se nevica. E poi quelle scarpe…
«Le Clark? Stesso discorso. E costano anche abbastanza. Non vanno bene, ma Rocco non pensa assolutamente a cambiarle».

Che cosa diceva della Valle d’Aosta? Troppo diversa da Roma?
«Ad Aosta c’è chi mi odia perché Rocco Schiavone lì non si trova bene. Ma in realtà io conosco quelle zone e le ap­prezzo molto. La finzione narrativa però è un’altra cosa. Una signora un giorno mi ha redarguito perché un certo locale citato nei miei libri in realtà non esisteva. Le ho risposto: “Signora cara, neanche Rocco Schiavone esiste!”».

Come è nata la sua passione di raccontare storie sotto forma di teatro, regia, come attore e infine da scrittore?
«È nata da bambino, quando facevo disegni e sognavo personaggi. Erano disegni molto brutti, eh… Ma è così che si comincia e non si smette più».

È vero che Torino le piace molto?
«Ne sono innamorato. Mi pace tantissimo, una città il cui centro è un autentico salotto. Ho detto che la nominerei nuovamente capitale d’Italia. I presupposti storici ci sono tutti. C’è già anche un parlamento pronto, no? Non si tratterebbe di un gesto di disamore per la mia città, anzi. Spostando la capitale a Torino, libereremmo Roma dal peso insostenibile della burocrazia e di tante persone al seguito. Ci penserebbero i torinesi a far funzionare tutto: ai sabaudi se assegni un compito, lo portano a termine a ogni costo».

Perché Rocco è così cinico e depresso?
«Perché è una persona come noi, ha tanti difetti e molti problemi pratici. Ma è chiaro che sono personaggi come questi quelli che hanno un grande potenziale narrativo. Io mi sento come lui».

Come crea le sue storie? C’è uno schema che segue?
«Come faccio? Non lo so. Ci penso per un po’ di mesi, ogni giorno. E inizio a scrivere. Poi magari mia moglie mi fa notare che un certo particolare non regge. E mi adeguo. Chi legge da fuori ha una visione più distaccata e il suo giudizio è prezioso. Comunque per me si tratta di un lavoro ormai relativamente facile. In pratica con le storie di Rocco è come se sviluppassi i capitoli di un lungo romanzo. La cosa difficile è scrivere il primo libro».

Anche lei ha vissuto il dramma del rifiuto?
«Ho avuto la fortuna di avere un maestro straordinario: Andrea Camilleri. Mi viene in mente un aneddoto. Mi raccontò di aver ricevuto un manoscritto da un aspirante scrittore. Gli chiedeva di leggerlo per una valutazione. Lui era una persona molto disponibile e pur faticando a trovare tempo, si mise a leggere le prime pagine. Ricordo che ogni tanto ci sentivamo e lui mi parlava di questo pesantissimo testo che avrebbe dovuto analizzare. Mi diceva che fin dalle prime pagine gli ricordava qualcosa. Poi, quando entrarono in scena i personaggi del romanzo, capì: stava leggendo esattamente “Guer­ra e Pace” di Lev Tolstoj! Prese il telefono e chiamò “l’autore”. Gli disse: “Ma scusi, ma lo sa che il testo che mi ha inviato non è opera sua? È ‘Guerra e Pace’”! La risposta dell’autore fu a dir poco spiazzante: “Sì, lo so, ma io l’ho migliorato!”».

Come si capisce se un testo funziona?
«Leggere i testi è un lavoro complicato e pesante. Un mio collega mi disse la tecnica che seguiva per non essere costretto a leggersi tutte le pagine e per non deludere le aspettative di chi gli chiedeva una valutazione. Mi spiegò come fare: leggi le prime quattro pagine, poi le due centrali e infine quelle conclusive. Così puoi dare all’autore un giudizio credibile: Ah, che bello quell”attacco e mi piace come hai sviluppato la storia. Il finale, poi, davvero geniale!».